I meravigliosi tesori sommersi di Capo Peloro

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Perfettamente al centro del Mediterraneo la Sicilia è da sempre punto di riferimento obbligato per il transito di navi belliche, commerciali o turistiche che in momenti e situazioni diverse hanno circumnavigato l'isola.

In particolare lo Stretto di Messina, considerato il crocevia dell'attraversamento, è caratterizzato da importanti correnti di maree che muovono imponenti masse d'acqua formando pericolosi vortici. In passato lo Stretto per le frequenti sparizioni di navi è stato demonizzato dagli abitanti delle due sponde che hanno colpevolizzato Scilla e Cariddi. Mostri che avrebbero inghiottito antiche navi cartaginesi, greche, romane, saracene, crociate ma anche navi di epoca moderna. E se delle ultime il ritrovamento e l'identificazione può rivelarsi "relativamente facile", grazie al moderato logoramento delle strutture e alla breve memoria storica che produce testimonianze scritte, e talvolta anche dirette, degli eventi accaduti, delle navi antiche in balìa della forza distruttrice del mare per secoli rimangono minime tracce, spesso ben nascoste dalle "ragnatele del tempo". Quando si è fortunati qualche reperto viene alla luce e una volta avvistato l'identificazione di eventuali ritrovamenti può avvenire solo tramite la consultazione e il confronto con testi storici specializzati.

L'area di interesse archeologico di Capo Peloro è considerata un vero e proprio paradiso subacqueo. Il Peloro, geograficamente la più orientale propaggine della Sicilia settentrionale, identificabile con la Penisola di Capo Peloro, in età greca e romana era un'area antropizzata sviluppata intorno al primo insediamento umano conosciuto della sponda siciliana dello Stretto di Messina (2200-2000 a.C.). Fonti storiche diverse menzionano che dal V secolo a.C. flotte di navi siracusane e puniche approdavano al Peloro e vi sostavano anche per lunghi periodi.

Il gruppo di ricerca Ecosfera, sotto il patrocinio dell'Arsenale Militare di Messina e in collaborazione con l'Assessorato e il Dipartimento regionale Beni Culturali e Ambientali e P.I., ha provato a mappare Capo Peloro, uno dei posti più belli e suggestivi al mondo. La ricostruzione storica di segnalazioni e ritrovamenti di presunti reperti archeologici sono molteplici, e rendono l'Area Marina zona di incommensurabile richiamo.

I reperti rinvenuti come anfore, ancore e strumenti usati durante la navigazione sono di epoche diverse e la loro datazione, o perlomeno la loro collocazione temporale e la provenienza spaziale, sono possibili grazie alla conoscenza della storia della navigazione, che in epoca antica è in stretto rapporto con la tipologia e le dimensioni delle imbarcazioni. Si navigava a vela, soprattutto le imbarcazioni commerciali, e a remi, in uso prevalentemente sulle navi militari. Nella navigazione si distinguevano piccolo cabotaggio, grande cabotaggio e altura. La prima, dal portoghese cabo, che indica uno spostamento da "capo a capo", era svolta senza allontanarsi dalla costa e con la terra in vista. Il grande cabotaggio, sempre con la terra in vista ma su distanze più lunghe, si effettuava senza scalo. La navigazione d'altura si svolgeva in mare aperto senza terra in vista, per viaggi della durata di più giorni spostando grandi carichi tra gli scali internazionali in modo sicuro ed economico.

La navigazione era strettamente legata alle condizioni meteorologiche con il periodo favorevole compreso tra la primavera e l'autunno. Durante l'inverno la navigazione d'altura veniva interrotta. La navigazione antica era essenzialmente una navigazione empirica, basata sul senso nautico e pratico dei marinai che si orientavano con sicurezza. I riferimenti astronomici e ambientali e i frutti dell'esperienza sostituivano la navigazione strumentale. Gli unici strumenti di precisione per la navigazione erano lo gnomone, utile di giorno in quanto basato sul calcolo dell'ombra per determinare l'ora e la direzione nord-sud a mezzogiorno. E l'astrolabio che permetteva di calcolare di notte l'altezza delle stelle usate come riferimento, e con il quale si potevano individuare i punti cardinali, soprattutto per la direzione est-ovest.

Tra gli strumenti di bordo le ancore. Ogni nave aveva in dotazione una o più ancore; i tipi attestati sono essenzialmente tre: l'ancora a gravità in pietra costituta da un sasso lavorato, con un foro o scanalatura centrale sulla quale veniva legata la cima d'ormeggio. Serviva a tenere ferma l'imbarcazione solamente in virtù del proprio peso. Le ancore con fusto e marre in legno, poi, con ceppo in piombo fisso o smontabile, costituirono una rivoluzione del sistema di ancoraggio finalizzato alla creazione delle moderne ancore di tipo "ammiragliato". In uso soprattutto tra il III secolo a.C. ed il II d.C. questi ceppi risultano spesso l'unica testimonianza di questo tipo di ancore e costituiscono una importante fonte di informazione perché presentano iscrizioni in rilievo con il nome della nave o dell'armatore. Le ancore in ferro di epoca classica, in uso già a partire da IV secolo a.C., sono generalmente in un pezzo unico ed erano inizialmente con le marre triangolari, raggiungendo poi la forma semicircolare delle moderne ancore di tipo "ammiragliato".

Anche lo scandaglio costituiva uno strumento fondamentale per la navigazione del quale abbiamo numerose testimonianze archeologiche. Lo scandaglio serviva per misurare l'altezza del fondale, soprattutto quando ci si avvicinava alla costa, per evitare di finire incagliati nelle secche. Era in pietra o piombo, di forma tronco-conica o a campana, nella cui sommità veniva applicato un anello per legare una sagola. Il peso variava tra i tre e i quattro chilogrammi per misurare i fondali più bassi, tra i dieci e i tredici per quelli più profondi. La base era incava in modo che, una volta arrivato sul fondo, all'interno si potesse depositare un piccolo campione del fondale marino.

Tra tanti reperti ritrovati in mare l'anfora è il simbolo dell'archeologia subacquea. La parola anfora richiama in genere il recipiente in argilla, "anche" con base a punta, usato per trasportare con le navi le mercanzie. Le anfore contenevano acqua, vino, olio, pesce, grano, monete, insomma di tutto. I difetti erano legati alla pesantezza e alla fragilità, di contro erano facilmente costruibili e costavano poco. Si disponevano nella stiva in una o più file sovrapposte, incastrate tra loro in modo che la parte inferiore dell'anfora di una fila superiore si incastrasse nello spazio vuoto lasciato dalle anfore della fila sottostante. I primi studi sulla classificazione dei materiali furono condotti dall'epigrafista tedesco Heinrich Dressel. È grazie alla presenza del carico d'anfore che si deve la conservazione della maggior parte dei relitti navali sul fondo marino; il carico, infatti, ha svolto nel tempo una funzione protettiva che ha preservato parte delle strutture lignee.

ITINERARI ARCHEOLOGICI SUBACQUEI.

Eccoci, dunque, al tema degli itinerari archeologici subacquei, recentemente impostosi all'attenzione degli esperti del settore e che dall'aprile 2010 con una convenzione sulla Protezione del Patrimonio Culturale Subacqueo, approvata a Parigi dall'Unesco, stabilisce che la "conservazione in situ deve essere considerata come la prima opzione". Il turismo archeologico subacqueo è tra i nuovi segmenti del turismo italiano il più sofisticato e uno dei più interessanti. Il crescente successo gli riserva maggiore spazio non solo nelle riviste di settore, ma anche nei documentari televisivi di divulgazione archeologica e turistica.

La Regione Sicilia ha dedicato particolare attenzione a questo tema anche grazie al patrocinio della Soprintendenza Archeologica del Mare. I compiti di questa istituzione prevedono la ricerca, la tutela e la valorizzazione turistica del "patrimonio archeologico subacqueo, storico, naturalistico e demo-antropologico dei mari della Sicilia e delle sue isole minori". Ciò ha portato alla creazione di numerosi percorsi archeologici subacquei e alla pubblicazione di materiale scientifico e divulgativo legato al turismo archeologico subacqueo. I percorsi sono stati tutti studiati e progettati secondo rigorosi criteri scientifici, e i reperti rinvenuti sono sempre stati mantenuti nella giacitura originale.

A Levanzo (Capo Grosso), a Cala Minnola, a Pantelleria (Cala Gadir, Cala Tramontana), a Ustica, Scopello e Filicudi sono stati predisposti percorsi che permettono la visita guidata di reperti, per lo più anfore e ancore, descritte e contrassegnate in situ o tramite schede plastificate. In taluni casi la fruizione è possibile anche per chi non preferisce rimanere a terra grazie a telecamere mobili subacquee che trasmettono le immagini consentendo l'osservazione dei reperti attraverso uno schermo.

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La zona di Capo Peloro rappresenta un perfetto sito per la creazione di percorsi archeologici, soprattutto per l'elevata concentrazione e varietà di reperti in spazi relativamente ristretti. Sono almeno tre gli itinerari che si potrebbero proporre, di cui due fruibili anche per subacquei neofiti, con adeguati briefing precedenti l'immersione che permetterebbero di presentare e illustrare il percorso. L'utilizzo di ausili video-fotografici, poi, permetterebbe di identificare e contestualizzare i reperti. Nel corso delle esperienze, infine, verrebbero realizzati dei video commentati del percorso stesso, per permettere la visita virtuale anche agli appassionati archeologi che non svolgono attività subacquee.

ITINERARIO 1. - "La stanza delle anfore": percorso monotematico alla scoperta di un carico di anfore". Parte da terra, dalla spiaggia antistante il Centro Subacqueo, e con poche pinneggiate su un fondale sabbioso impreziosito da una folta e ricca prateria di Posidonia si giunge su un sito di anfore di epoca punica di cui si trovano decine e decine di piccoli cocci, anse e alcuni grandi corpi incastonati nel fondo ad una profondità di circa 10 metri. Molto probabilmente si tratta dei resti di un carico di anfore, perso o rilasciato appositamente per alleggerire la nave in presenza di avverse condizione meteo.

ITINERARIO 2. "Il cimitero delle Ammiragliato": altro percorso monotematico alla scoperta di ancore incagliate. L'itinerario è localizzato nella porzione nord dello "Scalone", una formazione a costone che, come uno scalino, bruscamente si stacca da un fondale piatto e poco profondo (circa 5-10 metri) creando una parete che sprofonda. Questo dirupo sottomarino si estende parallelo alla linea di costa per circa 800 metri. Ci si immerge sul fondale di sabbia e Posidonia, a circa 8 metri di profondità, in direzione Nord-Est fino a incontrare lo Scalone, caratterizzato in questa porzione da canyon simili a gallerie rovesciate, e a una profondità di circa 25 metri si incontrano le prime ancore, grandi, di tipo ammiragliato. Procedendo verso lo Stretto di queste ancore se ne contano almeno dieci che giacciono distese sul fondo, o in verticale a poggiare sull'unghia o sulla marra stessa, altre ancora incagliate. L'elevatissima concentrazione di ancore in questa posizione tenderebbe a far pensare alla perdita di un carico di ancore. Il fatto che siano incagliate, invece, suggerisce la loro perdita una volta all'ormeggio, anche perché quest'area era considerata stazione di sosta prima di affrontare lo Stretto.

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Ancore in ferro posizionate nei pressi dello "Scalone" appena fuori Capo Peloro

ITINERARIO 3. "Ancore e ceppi in piombo". Sempre allo Scalone, questa volta nella sua posizione centrale, in corrispondenza del Centro Subacqueo, si incontra a circa 22 metri di profondità prima una contromarra, piegata e visibilmente danneggiata. Proseguendo verso Ovest poi un ceppo in piombo, anch'esso incagliato e continuando a una profondità di 27 metri un'ancora di tipo ammiragliato con le marre rivolte verso la costa (sembra quasi un'indicazione stradale). A seguire un'ancora a quattro marre presumibilmente impiegata per la difesa foranea.