La Cittadella

La Cittadella

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Dopo la fallita rivolta antispagnola iniziata da Messina, alleata con la Francia, il 7 luglio 1674 e conclusa il 17 settembre 1678 con le trattative di pace tra Francia, Spagna e la sua alleata Olanda, a Nimega, il 5 gennaio 1679 giungeva in città il nuovo Vicerè Don Francesco Benavides, conte di S. Stefano. Il giorno dopo egli  avviava una ferocissima restaurazione con un proclama, nel quale, si elencavano tutte le soppressioni cui andava soggetta la ribelle città: abolizione del Senato, della Zecca, del Porto franco e dello Stratigò; chiusura dell’Accademia della Stella e dell’Università, i cui privilegi furono trasferiti al Gymnasium Siculorum di Catania, rimasta fedele alla Spagna; confisca di tutti i beni appartenenti ai ribelli e trasferimento delle ricche biblioteche e dei manoscritti greci in Spagna. La città, non più esemplare e “Caput Regni” ma dichiarata “morta civilmente” e spogliata dei suoi privilegi municipali, trasferiti a Simancas. Il Palazzo Senatorio in piazza Duomo viene abbattuto e sulla nuda terra viene fatto passare l’aratro seminandovi sale, mentre, sulla penisoletta di San Raineri, veniva iniziata la costruzione della Cittadella, materializzazione della “longa manus” spagnola.

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      L’architetto fiammingo Carlos de Grunenbergh, incaricato di progettarla, pensò ad una fortezza con pianta pentagonale bastionata agli angoli che presentava l’innegabile vantaggio di essere totalmente staccata e isolata dalla città, quindi strategicamente più funzionale. Inoltre, consentiva l’assoluto e completo controllo del porto e della città stessa, come specificava il de Grunenbergh in una relazione dell’aprile 1680: “…la ciudadela que se ha prepuesto al braço de S. Raniero ha sido, por las razones siguientes, el primero por tener de continuo el ingresso en la Ciudad que per senorear el puerto,…sin permettir commercio por qualquier pretestos con los naturales, que es la razon por que se funden, y servirlos de fresno…”. Che si tratterà di una costruzione particolarmente difficile ed impegnativa, verrà dimostrato dal lento progredire dei lavori testimoniato dai diversi disegni relativi agli stati di avanzamento, eseguiti dallo stesso progettista e datati, 1 maggio 1681; 27 gennaio 1682; 18 settembre 1682; 11 maggio 1684; 24 aprile 1685, con l’indicazione cromatica delle opere già realizzate e di quelle in corso di esecuzione; 20 giugno 1686, con la Cittadella inserita nel tessuto urbano e indicata come ultimata, anche se, effettivamente, ancora incompleta.

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    Il 6 novembre 1686 fu solennemente inaugurata ed in tale occasione venne issato lo stendardo reale accompagnato dagli spari di tutta l’artiglieria. Per la sua costruzione furono spesi 673.937 scudi ed un intero quartiere, dove abitavano 8.000 persone, venne completamente raso al suolo. Si abbatterono, inoltre, sontuosi palazzi e parecchie chiese, fra le quali, S. Giovanni Nepomuceno; S. Elena; S. Omobono; S. Maria della Grazia con l’attiguo convento dei Carmelitani; il monastero dei Benedettini e la “torre mozza”, di origine saracena, che sorgeva nei pressi della porta est della Cittadella.

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     La fortezza era ritenuta inespugnabile ed infatti, in tutta la sua esistenza, subì tre sole rese non dovute peraltro ad assalti: agli Spagnoli nel 1718; alle armate di Carlo di Borbone nel 1735 ed infine, quella del 12 marzo 1861 alle truppe italiane comandate dal generale Cialdini. Non sempre, però, le sue artiglierie tuonavano con intenzioni offensive: le feste secolari in onore della Madonna della Lettera, infatti, venivano salutate in segno di giubilo con lo sparo di “100 e 1 colpi di cannone”.

Sostanzialmente, la pianta radiocentrica adottata per la Cittadella di Messina non era un’assoluta novità per quei tempi, rappresentando il tipo canonico molto usato nelle fortezze della seconda metà del Cinquecento in Europa, fra le quali, sono da ricordare quelle di Outreau (1542); Nancy (1556); Torino (1560); Pamplona (1560) di Giacomo Palearo; Anversa (1566) di Francesco Paciotto; Varadino (1569) e Agria (1572). Circondata dall’acqua per tutto il suo perimetro e ulteriormente rafforzata sui fronti nord e sud da due “rivellini” (bastioni a cuneo avanzati), costituiva l’immediata traduzione dei caratteri strategico-militari della fortezza imprendibile rinascimentale.

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     L’architettura imponente e massiccia della Cittadella, al pari di tutte le architetture militari concepite come strutture rigidamente funzionali ed essenziali, non si abbandonò nella globalità a concessioni estetiche, concentrando, invece, in maniera eclatante, tutta la variegata ed esplosiva tipologia decorativa nei portali con le caratteristiche decorazioni a spirali, chiocciolette di gusto spagnolesco eseguite dai maestri Biundo, Amato e Viola, già noti nel panorama artistico del tempo come “lapidarum  incisores  messanenses”. Esemplare in tal senso, nella sua magniloquenza formale e compositiva, è la “Porta Grazia”, così denominata perché ubicata nello stesso posto in cui sorgeva il convento di S. Maria della Grazia, dal 1961 sistemata nell’impropria sede di piazza Casa Pia. Lo sviluppo planimetrico della fortezza, recintata d’alte mura e da larghi fossati comunicanti col mare che la circondavano per tutto il suo perimetro, accessibile soltanto per mezzo di ponti levatoi, sintetizzava magistralmente i dettami dell’architettura militare del secolo precedente. E, nei cinque bastioni emergenti (“Norimberga”, “S, Carlo”, “S. Francesco”, “S. Stefano” e “S. Diego”) veniva ulteriormente ribadita l’affermazione del “sistema bastionato italiano” quale diretta conseguenza dell’avvento delle artiglierie che avevano già fatto tramontare, per sempre, la difesa medievale cosiddetta “all’arma bianca”.  

Forti e Castelli

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Il primo sistema difensivo di Messina in epoca medievale ebbe una svolta decisiva nel 1535, quando l'imperatore Carlo V ordinò la costruzione di una nuova cinta muraria fortificata, essendo la città esposta ad attacchi dal mare per la sua posizione strategica.

 

Il Liceo Scientifico Seguenza colloca una targa davanti il bastione Gentilmeni . "Sull'Onda di Lepanto" musica di Enzo Caruso 

In pochi anni Messina divenne un’imprendibile roccaforte, e, successivamente, venne  avviata l’edificazione delle  nuove fortezze Gonzaga, Castellaccio e San Salvatore che ne condizionarono notevolmente lo sviluppo urbanistico, dal momento chee tutte le costruzioni dovevano essere strategicamente collegate.

Agli inizi del‘600 le mura medievali che chiudevano Messina, sul mare, furono eliminate ed al loro posto venne edificata la “ Palazzata “ che, conservandone l’impronta, conferiva un aspetto diverso alla città poiché i palazzi si alternavano a porte monumentali. Nel 1621, dedicata a Carlo V, venne realizzata la Porta Imperiale che costituì l’ingresso principale di Messina a sud.

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Le mura, ancora oggi in parte esistenti, sono divise in più porzioni a causa dei moderni fabbricati e delle strade che attraversano i torrenti Boccetta e Portalegni.

Sulle colline, a ridosso della città, sorgono il Castello Gonzaga e Castellaccio, edificati per il controllo del territorio  attraverso le vallate di Camaro, Casazza e Gravitelli.

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Nello stesso periodo, l’edificazione del Forte SS. Salvatore sulla punta della penisola falcata di San Raineri completerà la difesa di Messina anche dal mare.

Dopo la fallita rivolta contro la Spagna del 1674-78, la costruzione della Cittadella pentagonale bastionata costituirà un minaccioso deterrente non solo nei confronti di attacchi nemici, ma anche in caso di sollevazioni interne. Il ciclo delle fortificazioni di Messina si concluderà nel periodo 1882-1892 con la realizzazione del formidabile apparato fortificatorio, sulle due sponde dello Stretto, dei cosiddetti “Forti Umbertini”.

I Forti Umbertini

DSC03736.jpgBateria Masotto

Da un’idea del generale Luigi Mezzacapo, ministro della Guerra, furono realizzati per il posizionamento dell’artiglieria, onde consentire  la difesa delle coste della Calabria e della Sicilia nord orientale negli ultimi decenni del sec. XIX .

Nello Stretto di Messina, lo Stato Maggiore del Regio Esercito Italiano determinò di costruire 24 fortezze edificate nel periodo compreso tra il 1882 ed il 1892; nel territorio messinese sorsero, così, ben 14 forti, denominati “Batterie” ed anche “Forti Umbertini”, tutti orientati verso il mare per il costante controllo dello Stretto da dove sarebbe potuto venire il pericolo di incursioni navali.

IMG_1793.jpgForte Cavalli

Partendo da sud in direzione nord ed ovest, la prima che s’incontra è la batteria “Monte Gallo” o “Cavalli”, in onore del generale che inventò il cannone rigato, sopra Larderia; la “Giulitta”, in seguito denominata “Generale Schiaffino”, a S.Lucia sopra Contesse; la batteria “Mangialupi” nell’area dell’attuale Policlinico Universitario, in gran parte non più esistente; la batteria “Petrazza” fra Camaro e Bordonaro, in collegamento con la Polveriera di Camaro; la batteria “Correale” a Noviziato Casazza, non più esistente; la batteria “Ogliastri” a Tremonti; la batteria “S. Jachiddu” che domina, ancora, le alture di Tremonti; la batteria “Menaia” o “Forte Crispi” in contrada Campo Italia; la batteria “Masotto” o “Polveriera” a Curcuraci; la batteria “Serra la Croce” fra Curcuraci e Faro Superiore, in collegamento con la Polveriera di Faro Superiore; il forte “Spuria” a Ganzirri; ala batteria “Monte dei Centri” a Salice; la batteria “Monte Campone” sopra Calvaruso, nel Comune di Villafranca Tirrena e, infine, la batteria “Puntal Ferraro” e la batteria “Dinnammare” e polveriera “Croce Cumia” sulla strada Colle Sarrizzo-Dinnammare.

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Forte San Jachiddu

L’architettura di queste fortezze era fortemente condizionata dalle esigenze strategico-militari che ne imponevano anche determinate scelte urbanistiche. Gli ingressi, infatti, sono ubicati generalmente a sud-ovest e tutte le batterie sono orientate a nord-est, con i terrapieni rivolti verso il mare. Il motivo era duplice: da un lato controllare il movimento navale nello Stretto di Messina, verso la cui direzione erano posizionati gli obici da 280 mm. con una portata di 7.000 metri in postazione nelle terrazze; dall’altro assorbire, con i terrapieni, gli effetti dei proiettili lanciati dai cannoni a bordo delle navi attaccanti.

“Dovendo anche assolvere a funzioni difensive, in presenza di eventuali attacchi nel caso che il nemico fosse riuscito a sbarcare truppe di fanteria”, come scrive Bruno Villari, le batterie vennero costruite con i fossati di gola, ed ecco perché le pareti dei muri di cinta che prospettano sui fossati, e, i baluardi circolari, sono dotati di strette feritoie strombate, incorniciate da blocchi di basalto e aventi la funzione di posizionamento della fucileria che avrebbe dovuto contrastare gli eventuali attacchi della fanteria.

L'edificazione di queste fortezze permise anche la realizzazione di una rete viaria per il loro collegamento, eseguita dal Genio Militare e che, ancora oggi, permette di attraversare posti altrimenti irraggiungibili. La più importante è quella che va dal crinale di Capo Peloro a Piano Margi, attraversando Forte Spuria, Faro Superiore, Castanea, colle Sarrizzo, Dinnammare, e, da qui, a Piano Margi, attraverso strade più scoscese e difficili ma che danno la possibilità di conoscere le parti più belle e panoramiche dei nostri monti.

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Veduta dello Stretto da Forte Cavalli

Fra tutti i villaggi sedi dei Forti Umbertini, Curcuraci ha una rilevanza storica particolare; nel suo territorio, infatti, sono ubicate ben quattro batterie:  la “Serra la Croce”; la  “Masotto”; la “Menaia” o ”Forte Crispi”, e, la più antica, del “Campo Inglese” che, vista la sua particolare posizione, è  stata sempre scelta come luogo di osservazione e controllo dei movimenti nel Mare Tirreno e nello Stretto di Messina. Dalle colline di Curcuraci fu dato l’allarme a Messina, nel cui porto si trovavano le navi romane di Caio Duilio, sulla presenza  delle navi cartaginesi durante la prima guerra punica ( 246 a.c.). Inoltre, la zona, fin dall’antichità si chiamava “ Piano dei Campi “, dove si faceva il “campo” per le esercitazioni militari. 

Nella realizzazione delle batterie umbertine vennero impiegate, per le strutture, la pietra calcarea locale ed i mattoni in blocchi di basalto, mentre, per le rifiniture, mattoni in argilla ed elementi di pietra lavica. La loro composizione architettonica e funzionale si può sintetizzare in due fondamentali e ricorrenti elementi: il cortile e le rampe. Il vasto cortile interno (o “piazza d’armi”) è indispensabile per le operazioni di manovra e da esso hanno accesso tutti gli ambienti interrati e seminterrati adibiti a deposito polveri e munizioni, oltre che a postazioni fisse di sentinella per il controllo del fossato e delle sottostanti vallate. Le rampe simmetriche, a pendenza adeguata, servivano per far salire gli obici da 280 mm. che venivano sistemati, sulle terrazze, nelle rispettive postazioni.

A questo formidabile apparato difensivo non corrispose, nella realtà, il completo utilizzo che si sperava; tutto il loro uso fu limitato, in sporadiche occasioni, durante la Prima guerra mondiale, e, in seguito, come sedi di postazioni antiaeree nel secondo conflitto mondiale.   

 

Castello Gonzaga 

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Castello Gonzaga

Il castello Gonzaga venne eretto nel periodo che va dal 1537 al 1544, come si può constatare da una lettera dei giurati di Messina al Vicerè, datata 10 aprile 1544, nella quale si dice che “…al presente la fortezza de Gonzaga è quasi finita, et per lo presente mese sarà in tutto finita”.

L’imponente costruzione sorge sul colle del Tirone in contrada detta “Vignazza” o “della vigna del re” (l’attuale Montepiselli), a 150 meri sul livello del mare e in un punto la cui grande importanza strategica è stata riconosciuta in ogni epoca. Infatti, qui si accampò l’esercito di Gerone II nel 264 a. C. durante la guerra contro i Mamertini; qui Carlo d’Angiò organizzò il suo quartiere militare nella guerra del Vespro del 1282 e da qui il generale Cialdini, nel 1861, bombardò senza sosta la Cittadella in mano borbonica.

Autore di questa imponente fortezza fu l’architetto e ingegnere militare bergamasco Antonio Ferramolino, progettista anche della cinta muraria, ed essa prese il nome dall’allora Vicerè di Sicilia don Ferrante Gonzaga che vi soggiornò anche per un breve periodo.

L’edificio, di grosse dimensioni, presenta una pianta stellare composita con un grande baluardo rivolto verso il porto, e, la sua tipologia, evidenzia come già l’uso dell’artiglieria si fosse imposto in maniera decisiva nelle battaglie campali. Di tutto il complesso, solo la parte relativa al baluardo era abitata. Vi si accede tramite un grande portale dalle sobrie e dimesse linee architettoniche, privo di elementi decorativi. L’interno è variamente articolato da ampie stanze fra le quali spicca, su tutte, quella che originariamente doveva essere presumibilmente la sala d’armi, con il pavimento ligneo ed il soffitto voltato a crociera. Da una piccola camera vicino al portale, percorrendo uno stretto corridoio, si perviene agli ingressi di due gallerie il cui tracciato segue il perimetro del castello. Strette e basse, coi soffitti a botte, le gallerie si allargano in alcuni punti formando delle camere che fungevano da magazzini e depositi di materiale. E’ tradizione (e parecchi storici locali lo confermano) che alcune di esse collegassero il castello Gonzaga col Castellaccio (oggi “Città del Ragazzo”) e, addirittura, con il porto.

Dalla suggestiva scala posta nella zona centrale del baluardo, si arriva al primo piano, da cui, mediante quattro porte dislocate alle estremità dei bracci di un ingresso a pianta di croce greca, si accede a due vastissime sale avvolgenti di cui una, con il camino ancora esistente, era probabilmente adibita ai consigli di guerra ed al ricevimento degli ospiti di riguardo. Interessanti sono sette cellette sparse lungo il perimetro e ricavate posteriormente utilizzando le rientranze del muro in corrispondenza delle finestre.

Salendo ancora per la scala si passa al piano del terrazzo, ricoperto da una fitta vegetazione, dove si trovano un pozzo e una guardiola circolare con accanto due grossi elementi decorativi in pietra a volute. Più in là, è ubicata una chiesetta ad unica navata ed unica abside la cui facciata è sormontata da una targa marmorea datata 16 ottobre 1753: la lunga iscrizione ricorda, in tono minaccioso, “…come questa chiesa seu cappella non gode dell’immunità chiesiastica in virtù di Breve Pontificio di S.S. Benedetto XIV…”: in parole povere, il malcapitato perseguitato dalla giustizia che vi si rifugiava, non poteva invocare la protezione della chiesa e sfuggire, così, al proprio destino di futuro galeotto. Adibito a polveriera in un recente passato, è stato smilitarizzato nel dicembre 1976 e si attende, ancora oggi, un suo pieno utilizzo.

Castellaccio

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Forte  Castellaccio

Antichissimo di origine (Giuseppe Buonfiglio, storico messinese che scriveva nel 1606, lo considera opera del mitico Orione, fondatore di Messina), costruito probabilmente su mura attribuite a popolazioni preelleniche, il forte Castellaccio si erge su una collina a 150 metri sul livello del mare, a controllo della sottostante vallata di Gravitelli. Ricostruito in varie epoche, venne poi ridotto in forma quadrata con quattro bastioni agli angoli su progetto dell’architetto e ingegnere bergamasco Antonio Ferramolino. Lo storico gesuita Placido Samperi, nel 1644, ricordava anche un oratorio della Madonna di Guadalupe esistente nella fortezza, devozione introdotta dal castellano Benedetto Ernandez che vi aveva fatto scolpire una copia della sacra immagine esistente nell’omonimo santuario spagnolo di Guadalupe.

Insieme al suggestivo Castello Gonzaga, dall’alto dei suo centocinquanta metri sul livello del mare il Castellaccio rappresentava la chiave delle difese del regno di Sicilia voluta da Carlo V, oltre che funzione di osservatorio e controllo dello Stretto e delle alture collinari di Messina.

Nel 1674, durante la rivolta antispagnola, fu preso d’assalto dai messinesi comandati dal valoroso Giacomo Avarna. Usato, in quella circostanza, come osservatorio contro gli spagnoli, avvisava con una cannonata i cittadini dei maggiori pericoli. Ancora, nel 1848, fu conquistato dal popolo sollevato contro i Borboni. Danneggiato dal sisma del 1908, fu ampiamente manomesso all’indomani delle fine del secondo conflitto mondiale, quando vi si installò la “Città del ragazzo”.

Della struttura originaria rimane la pianta quadrata rafforzata agli angoli da bastioni a cuneo, il cornicione continuo di coronamento a sezione semicircolare e le guardiole sugli spalti, anche se notevolmente rimaneggiate.

Castello del Santissimo Salvatore

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Per volere di Carlo V, l’imperatore “sui cui domini non tramontava mai il sole”, nel 1546 veniva soppresso e demolito uno dei primi conventi cristiani di monaci basiliani dedicato al SS. Salvatore, posto sulla punta della penisola falcata di San Raineri.

Al suo posto, andava sorgendo l’omonimo forte progettato dall’architetto Antonio Ferramolino, pensato per munire l’imboccatura del porto che, in precedenza, era stato presidiato dalla non più efficiente e superata torre medievale di S. Anna.

L’architetto militare bergamasco ideava un complesso fortificato bastionato che si spingeva verso l’interno della penisola, inglobando la torre che rimase memorabile per la difesa contro i francesi nella guerra del Vespro (1282), al comando di Alaimo da Lentini.

Nel secolo XVII, il forte San Salvatore venne ingrandito con l’aggiunta di nuove opere fortificate e sulla porta principale spagnola, sotto un grande stemma di re Filippo III d’Austria, venne collocata una lapide con iscrizione che ricorda i nuovi apporti difensivi attuati nel 1614. Presidiato dagli spagnoli nel 1674 al tempo della rivolta antispagnola, si arrese ai messinesi e dopo la costruzione della Cittadella, ne seguì i destini e con essa si arrese nel 1719, 1735 e 1861.Recintato d’altissime muraglie a strapiombo, rafforzato da baluardi a cuneo in pietra viva e presidiato da garitte in aggetto sulla sottostante scogliera, il forte era accessibile da terra, oltre che dalla porta bugnata che rappresenta un pregevole esempio di architettura tardo-manierista, dalla cosiddetta “Porta Polveriera” fiancheggiata da due semicolonne ioniche ad anelli e con forte arco a bugne. Accanto, è murata un’altra targa marmorea con iscrizione datata 1752 e relativa alla realizzazione di un cantiere navale di riparazioni, voluto da Carlo III di Borbone.

Sull’antico mastio si erge, adesso, la stele votiva a sezione ottagonale sulla quale è posta la statua in bronzo dorato della Madonna della Lettera benedicente, opera dello scultore nativo di Nizza di Sicilia (Me) Tore Edmondo Calabrò che nel realizzarla, si ispirò al simulacro d’argento raffigurante la Madonna della Lettera (opera di Lio Gangeri del 1902) che viene portato in processione il 3 giugno, giorno dedicato alla Patrona di Messina. Su progetto dell’ing. Francesco Barbaro, direttore dell’ufficio tecnico arcivescovile, la superba stele rivestita di pietra di Trapani raggiunge l’altezza complessiva di metri 60, dal piano delle fondazioni che scendono per 7 metri sotto il livello del mare. Venne inaugurata la domenica del 12 agosto 1934, alle ore 20, con la solenne benedizione del Papa Pio XII  che la illuminò, direttamente dalla villa pontificia di Castel Gandolfo a Roma, mediante un’apparecchiatura ad onde ultracorte predisposta da Guglielmo Marconi.   

Castello di Rocca Guelfonia

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Quando Riccardo I duca di Normandia e re d’Inghilterra, meglio noto col soprannome di “Cuor di Leone”, si trovò a Messina dal settembre del 1190 all’aprile del 1191, prima di proseguire con Filippo Augusto re di Francia per la Terra Santa durante la Terza Crociata, nella città erano potentissimi i greci che angariavano i messinesi (latini). Malvisti da Riccardo, venivano da esso osteggiati e durante il suo soggiorno messinese, egli riusciva a fiaccarne l’orgoglio facendo ampliare, sulle alture di Messina, un’imponente fortezza che prese poi il nome di “Matagriffone” (oggi Tempio-Sacrario di “Cristo Re”). Non a caso il nome deriva dall’unione di “Mata”, dal latino “mateare” (ammazzare) e “griffone”, con il quale erano denominati in senso dispregiativo, nel Medio Evo e specialmente a Messina, i greci.

Si dovette trattare, appunto, di una ristrutturazione integrale proseguita anche dopo la partenza di Riccardo poiché la fortezza, di ignota fondazione anche se di poco posteriore all’epoca greca – giacchè Polibio riferisce che da essa i Mamertini scacciarono il pretore cartaginese – fu restaurata dai normanni.

Semidistrutto dal terremoto del 1908, del castello di “Rocca Guelfonia” (altro nome con il quale era inteso, derivando da “castello del re guelfo” e, cioè, di Riccardo I) venne conservata la sola torre merlata, a pianta ottagonale, e alcuni locali oggi sottomessi alla strada di circonvallazione cui si accede da un pregevole portale bugnato nella sottostante via delle Carceri. Questa monumentale porta seicentesca, con un concio di chiave raffigurante una testa con funzione apotropaica, reca sulle bugne dei piedritti antiche iscrizioni propiziatorie e invocazioni religiose graffite col coltello dai parenti dei carcerati, alcune datate del ‘700, quando appunto i locali sotterranei del castello erano adibiti a luoghi di pena.

Sulla grande spianata, ottenuta dalla barbara demolizione di quanto era rimasto, nonostante i resti fossero stati vincolati nel 1925 con decreto del Ministero della Pubblica Istruzione, fu costruito il tempio di “Cristo Re” su progetto dell’ing. Francesco Barbaro, inaugurato il 28 ottobre 1937.

Nell’imponente torre, rimaneggiata durante la ricostruzione post-terremoto, venne tenuto prigioniero, nel 1284, Carlo D’Angiò detto “lo Zoppo”, catturato dall’Ammiraglio Ruggero da Lauria, durante una battaglia navale nel golfo di Napoli, prima che venisse trasferito in Spagna.

Nel 1446, come ricorda una lastra con iscrizione graffita ancora esistente, purtroppo mancante della parte centrale, venne restaurata.

Sulla copertura, l’11 agosto del 1935, fu collocato il “campanone” fuso con il bronzo dei cannoni nemici della guerra 1915-18 che, con un’altezza di 2,80 metri ed un peso di 130 quintali, è la più grande campana d’Italia.          

La ricostruzione del castello, iniziata come si disse al tempo di Riccardo I, dovette continuare in epoca sveva, sotto Federico II, e probabilmente a questo periodo (inizi sec. XIII) è da collocare la realizzazione della torre. Molto simile è, infatti, nella composizione, nella forma, nell’apparato murario e nelle strette ed alte finestre a feritoia, ai castelli federiciani sorti in Italia meridionale (vedi la torre di Enna e Castel del Monte ad Andria, in provincia di Bari).

Come queste strutture fortificate, la torre esemplifica le tipologie architettoniche ed i requisiti richiesti per la difesa “passiva”, quando gli assalti e le espugnazioni avvenivano all’arma bianca, prima dell’avvento delle artiglierie con l’invenzione della polvere da sparo. Infatti, a partire dal secolo XVI, le strutture fortificate si abbasseranno notevolmente, aumentando di spessore ed introducendo il “Bastione”, baluardo avanzato a pianta triangolare.

Fortezza di Capo Peloro

Denominata popolarmente anche “Turri Vecchia”, viene descritta da Giuseppe La Farina nel 1840 come: “…di antichissima costruzione, sebbene in tempi moderni restaurata: su di essa risplendono trentasei grandi lampade, che servono nella oscurità della notte di guida e di avviso agli erranti navigli”.

Nel 1773 venne redatto un progetto (Plano de la Tore del Faro y Sus Profiles con el Proyeto para assigurarla Contra una Sorpresa Propuesta este del Coronel y Ingeniero D. Pedro Bardet de Villanueva) per fortificarla con una cinta muraria rettangolare bastionata agli angoli e ricavare gli alloggi del Corpo di Guardia, la Casa del Comandante, la Cappella e altri ambienti funzionali, progetto che ebbe parziale realizzazione.

Durante l’occupazione inglese, nel periodo 1806-1815, venne ulteriormente fortificata con l’aggiunta di un elemento semicircolare che si eleva sul mastio centrale.

In epoca greca, presso il capo Peloro, sorgeva un maestoso tempio dedicato a Nettuno di cui, oggi, non rimane traccia alcuna.