Le feste religiose a Messina

 

barette1.jpgLa processione delle Barette in una foto precedente al sisma del 1908

La Processione delle Barette il Venerdì Santo       

Una delle processioni più sentite e suggestive a Messina è quella delle “Barette”, il Venerdì Santo, regolata da un comitato di undici battitori composto dai rappresentanti delle famiglie  che hanno il  preciso compito di curare  una varetta e guidare i portatori durante il corteo processionale. Le “Barette” escono dalla chiesa del Nuovo Oratorio della Pace in via 24 Maggio (che conserva l’originario portale in pietra calcarea con l’iscrizione “Firmiter Aedificata MDCVIII”), e, nello stesso luogo, vengono custodite durante l’anno.

 

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Si tratta di una manifestazione religiosa che risale al 1610, anno in cui l’Arciconfraternita di Nostra Signora del SS. Rosario sotto il titolo della Pace e dei Bianchi, fusa con quella dei Santi Apostoli Simone e Giuda, deliberava di promuovere e realizzare una processione di statue rievocanti la Passione di Cristo e da effettuarsi nella notte del Giovedì Santo. Inizialmente con tre barette (questo particolare termine per designare i gruppi statuari messinesi nasce dal fatto che si trattava, originariamente, di “macchine d’argento e di finissimi cristalli” dette “bare”: un simulacro di bara con il Cristo morto, cioè, portato a spalla e seguito da altre bare), lentamente si arricchì con altre donate da artigiani, associazioni e fedeli per ex voto.

 

I gruppi statuari, realizzati in varie epoche, sono in cartapesta, gesso e legno. Particolarmente suggestiva è quella del "Cristo che cade sotto il peso della Croce", realizzata in cartapesta nel primo Settecento dal ceroplasta messinese Giovanni Rossello, rifatta dopo il 1908, e, quella dell’"Ultima Cena", di Matteo Mancuso, del 1846, anch’essa rifatta sullo stesso modello dopo il terremoto.

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Altre “Barette” di pregio sono l’”Orazione nell’Orto”; il “Cristo flagellato” (sec. XVIII); l’”Ecce Homo” (sec. XVIII); il “Crocifisso”; L’”Addolorata”; il “Cristo nella bara”; la “Pietà”, tutte in cartapesta con la testa in legno. Nel 1801 vennero introdotti nel corteo processionale il picchetto armato e la banda musicale militare, che si mantennero fino al 1866 per poi essere sostituiti dai Vigili Urbani; da allora, la processione si svolge il pomeriggio del Venerdì Santo.   


La salita di corsa delle Barette nella via Oratorio San Francesco

Con partenza dalla via 24 Maggio, le “Barette” percorrono la via S.Agostino, il Corso Cavour, la Via T.Cannizzaro, la Via Garibaldi, la Via Primo Settembre per giungere, a conclusione, in Piazza Duomo. 

Tutta la manifestazione, oggi, è organizzata e gestita dalla " Confraternita del SS. Crocifisso Ritrovato", subentrata al comitato dei battitori.

La festa degli " Spampanati" la domenica di Pasqua

 

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Il Cristo Risorto e la Madonna della Mercede

Retaggio di antiche tradizioni devozionali, la processione della Madonna e del Cristo Risorto che si svolge la domenica di Pasqua, con partenza dalla chiesa di  Maria SS. della Mercede in via Tommaso Cannizzaro, s'inserisce nel novero di una festa che in passato prendeva il nome degli “Spampanati”. il motivo era quello  che le popolane del rione  (denominato “Portalegni” per via dell'antico “Jus lignandi” che qui esercitava la Curia Arcivescovile) facevano fra loro a gara nello sfoggio di coloratissimi indumenti sgargianti.

Questa caratteristica policromia dell'abbigliamento femminile, dovuta all'antica usanza che avevano le donne del rione di salutare la Pasqua e la primavera smettendo gli abiti pesanti ed indossando i primi vestiti di cotone o di seta multicolori, spesse volte di gusto pacchiano e di sapore moresco, conferiva il nome alla festa.“Spampanate”, infatti, apparivano così vestite le popolane agli occhi dei numerosi fedeli qui convenuti dalla città o “scasati di quarantottu casali”.

Un tempo, di fronte e attorno alla chiesa, si assiepavano i banconi dei venditori di “giaurrina longa menza canna”(impasto di farina, miele ed essenze aromatiche)che ad alta voce, le vene gonfie sul collo abbronzato, “banniavano” con araba nenia la loro merce “sapurita e ianca comu 'a cira”, in rispetto all'antica etica professionale che dice: “'A robba banniata è menza vinnuta”. Il clou della festa degli “Spampanati”, allora come oggi, è costituito dalla processione delle statue policrome di Maria e di Gesù Risorto, curate egregiamente dalla Confraternita di S. Maria della Mercede in S. Valentino.

La processione del Cristo Risorto la domenica di Pasqua "Festa degli Spampanati"

Una processione di vetuste origini se già nel 1644 Placido Samperi, nella sua “Iconologia della Gloriosa Vergine Maria” la descrive con gustose citazioni dei particolari: “Si vede parimenti nella cappella sfondata dalla parte destra una bellissima statua della Madonna della Mercè, la quale si porta in solenne processione dalla Confraternita, da qualche tempo in qua già riconciliata, nella mattina della Pasca di Resurrettione, facendosi il trionfale incontro col Signore Risuscitato, a suon di trombe e di musiche, col festivo rimbombo d' Archibugi, di mortaretti e di Artegliarie nell'ampio piano del Duomo”.

Il corteo, che rievoca la “cerca” della Madonna del suo Figlio risorto e che si conclude con l'incontro (“la giunta” ), si è mantenuto intatto fino ai nostri giorni, con l'unica variante del luogo d'incontro. Gaetano La Corte Cailler, in un suo scritto del 1914, così descrive il momento culminante della sacra rappresentazione: “Le due statue adunque che si recano nella processione qui ricordata rappresentano l'una la Madonna ammantata di nero e l'altra il Cristo risorto.

Nel Duomo, intanto, c'è la grande funzione  di Pasqua alla quale assisteva in forma solenne il Magistrato cittadino, cioè il Senato: terminata la funzione, le due statue si incontravano nella piazza finalmente ... La Madonna, nel  riconoscere il Figlio, butta giù il manto di lutto, e da quel manto escon fuori  molti uccelletti, allegri per l'ottenuta libertà. Le due statue quindi percorrono lietamente le vie, accompagnate da musiche inneggianti alla resurrezione del Signore, e poi tornano in chiesa, a Portalegni, per dormirvi il sonno di un altro anno”.  

La Processione del Vascelluzzo

vascelluzzo1.jpgIl Vascelluzzo portato in processione nel porto

Nel giorno della festività del Corpus Domini è tradizione che a Messina, nelle ore pomeridiane, venga portato in processione il “Vascelluzzo”, opera di argentieri messinesi del XVI secolo.

Voluto dai devoti in ringraziamento alla Madonna della Lettera per aver fatto giungere in porto navi cariche di grano durante la tremenda carestia del 1301, quando Messina era assediata dall’esercito di Roberto d’Angiò, e del sec. XVI, venne fatto realizzare dalla Confraternita di S. Maria di Porto Salvo dei Marinai che diede l’incarico ad un ignoto cesellatore (sicuramente un messinese, considerato che nel XVI secolo l’arte dell’argenteria toccava vertici di assoluta perfezione ed era fiorentissima nella città).

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 Già nel gennaio del 1576, la baretta col vascello d’argento era completata. Il 7 febbraio, poi, i confrati avanzavano richiesta agli amministratori cittadini per poter collocare sul “Vascelluzzo” la “pigna” in cristallo di rocca con la reliquia dei capelli della Madonna, richiesta che venne poi accolta.


La processioe del Vascelluzzo nel giorno del Corpus Domini

Il “Vascelluzzo”, in sostanza, è la sintesi emozionale, in forma di ex-voto d’argento, di tutti i tremendi periodi di carestia che Messina attraversò durante la sua tormentata storia. Oltre quello più antico del 1301, altri tristi avvenimenti si verificarono nelle carestie del sec. XVI, nel 1603, nel 1636 e nel Sabato Santo del 1653: anche in questi casi, l’intervento della Madonna della Lettera fece sì che giungessero in porto navi cariche di frumento.                                   

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Sulle quattro facce del basamento che sostiene il “Vascelluzzo” vi sono altrettanti medaglioni con le raffigurazioni, a sbalzo, della "Madonna della Lettera"; di "Sant’Alberto" con la Bibbia ed il giglio; di "San Placido con i suoi fratelli Martiri" e della "Madonna di Porto Salvo" con sullo sfondo la città di Messina e la Palazzata. Al centro di ogni lato si trovano, in altorilievo, quattro testine argentee con busto raffiguranti i marinai che, secondo la tradizione, fecero realizzare la varetta. Ai quattro angoli sono fissati altrettanti angeli a braccia protese che, oltre a spighe di grano, sorreggevano vari oggetti andati perduti nel tempo.

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Durante l’anno il “Vascelluzzo” è custodito all’interno della chiesa di Santa Maria di Porto Salvo dei Marinai, e, prima della processione, viene  addobbato con spighe di grano, fiori e bandierine. In Cattedrale viene sistemato, sotto una splendida e cesellata corona regale sorretta da angioletti, un cilindro di vetro contenente i “Sacri Capelli” della Madonna. Conclusa la processione e consegnata la reliquia, il “Vascelluzzo” è riportato alla chiesa dei Marinai e le spighe di grano vengono distribuite ai fedeli, che le custodiscono in casa in segno di augurale abbondanza.    

Festa della Madonna della Lettera a Messina


Festa della Madonna della Lettera Patrona di Messina

“Apud Messanenses celebris est memoria B. Virginis Mariae, missa ipsis ab aedem dulci epistola”: così si legge nel “Chronicon Omnimodae Historiae” di Flavio Lucio Destro, scritto nel 430 d.C. e dedicato a S. Gerolamo. Una notazione importantissima che fa giustizia sommaria di quanti hanno sempre ritenuto che la Lettera vergata da Maria Vergine il 3 giugno dell’anno 42 e portata a Messina l’8 settembre dello stesso anno, sia stato un falso chirografo frutto, nel 1490, di una manipolazione di Costantino Lascaris.

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La testimonianza di Flavio Lucio Destro, che si riferisce all’anno 86, non lascia ombra di dubbio: “Celebre è presso i messinesi la memoria della dolce epistola scritta dalla Beata Vergine Maria”. Una lettera che la Madonna legò con alcuni suoi capelli e consegnò agli ambasciatori messinesi che, informati dalla predicazione di San Paolo Apostolo nel piccolo Villaggio di Briga Marina dove era approdato, si erano recati a renderle omaggio in Palestina e ne avevano ricevuto, oltre al prezioso manoscritto, la Sua perpetua protezione di Messina.

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Il vero e proprio culto della Madonna della Lettera, tuttavia, si affermò solo nel  1716, quando il monaco basiliano Gregorio Arena portò a Messina una traduzione di un codice arabo della lettera di Maria ai Messinesi: da allora, la Madonna della Lettera assunse il ruolo di Patrona e  la sua festa si stabilì di celebrarla il 3 giugno di ogni anno.

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Tale festività non ricalca quelle di Reggio Calabria, Catania o Palermo, non è una festa di popolo come quella della Vara e si riduce ad una semplice processione che ha inizio dalla Cattedrale e si svolge lungo il Corso Cavour, Via Tommaso Cannizzaro, Via Garibaldi, Via Primo Settembre e rientro al Duomo. Un percorso di circa 3 km. con tutte le Confraternite della Diocesi nei loro sai tradizionali, che sfilano tra due ali di fedeli.

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Per l’occasione, il dipinto che raffigura la Madonna della Lettera col Bambino sull’altare maggiore della Cattedrale (un rifacimento di Adolfo Romano poiché l’originaria, antichissima icona era già andata distrutta durante l’incendio sviluppatosi nel 1254, nel corso dei funerali di Corrado IV) viene ricoperto, soltanto quel giorno, della preziosa Manta d’oro, opera di Innocenzo Mangani del 1666, conservata nel Tesoro del Duomo.

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La Varetta processionale in argento cesellato con quattro anfore agli angoli, venne realizzata nel 1626 ed è quella stessa che, con modifiche e varie sostituzioni, viene portata processionalmente ancora oggi. Nel 1902 un devoto della Vergine, Nunzio Magliani, volle decorarla a sue spese con una statuetta d’argento alta novanta centimetri e raffigurante la Madonna della Lettera; incaricò, a tale scopo, lo scultore Lio Gangeri che la portò a compimento lo stesso anno, facendola niellare a Roma dall’incisore Pietro Calvi.

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Alla base, si trova un trofeo a rilievo con raffigurati lo stendardo di Messina; una veduta della città e la nave che con gli ambasciatori messinesi si reca in Palestina; Maria che consegna la Lettera al capo delegazione e la stele votiva nella penisola falcata con in cima la “Madonnina”. Dietro la statua si eleva un turibolo variamente decorato sulla cui cima, durante la processione del 3 giugno, viene collocata un’antica pigna-reliquiario in cristallo di rocca contenente I “Sacri Capelli” con i quali la Vergine legò la Lettera indirizzata ai messinesi. 

La Vara

La Vara, inizialmente nata come “carro trionfale” per celebrare l’entrata di Carlo V a Messina nel 1535, reduce dalla vittoriosa impresa di Tunisi e La Goletta contro Ariadeno Barbarossa, fu successivamente trasformata in “Machina” devozionale raffigurante l’Assunzione della Vergine in Cielo, con una rappresentazione scenografica che ne fa una delle più celebri ed antiche “machine festive” europee ancora esistenti, con le sue otto tonnellate di peso ed i suoi 13.50 metri d’altezza.   

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La più antica testimonianza scritta, che finora si conosce di una “machina” dedicata alla Vergine Assunta, è quella di Francesco Maurolico che nel suo “Sicanicarum Rerum Compendium” del 1562 scrive: “…Lectica quae Assumptionem Deiparae Virginis quotannis ad medium Augusti mensis repraesentat”. Analoga “machina” laica fu, però, descritta da Niccolò Jacopo (o Colagiacomo) D’Alibrando nella sua opera “Il triompho il qual fece Messina nella Intrata del Imperator Carlo V” scritta nel 1535. 

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Partendo dalla piattaforma del “cippo”, sulla quale è rappresentata la “Dormitio Virginis” (morte della Vergine) la cui bara era contornata dai dodici apostoli secondo la disposizione canonica delle pitture bizantine, la cosiddetta “koìmesis toù theothòkou”, salendo sono raffigurati i “Sette Cieli” (il Paradiso) che l’Anima della Madonna attraversa durante la sua ascensione; quindi, in aderenza alla concezione tolemaica dell’Universo – la Terra al centro e il Sole, la Luna e gli altri pianeti ruotanti intorno ad essa - il Sole e la Luna girano sorreggendo, nei rispettivi raggi più lunghi,  fanciulli vestiti da angioletti.

Ancora più su è ubicato il globo terracqueo con le stelle fisse che sostiene altri angioletti (un tempo erano quattro, a simboleggiare le Virtù Cardinali) e, al culmine, la figura di Cristo che con la mano destra porge l’”Alma Maria” (l’Anima della Vergine) all’Empireo, dove c’è la beatitudine e la diretta visione di Dio.

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L’influenza della “Divina Commedia” di Dante, in tale complessa e colta raffigurazione scenica, è evidente e contribuisce ad avvalorare l’ipotesi di un intervento di Francesco Maurolico, dotto scienziato ed umanista messinese del Cinquecento, mentre a progettarla dovette essere Polidoro Caldara da Caravaggio, che aveva curato anche la realizzazione degli “archi trionfali” eretti per celebrare l’ingresso a Messina dell’imperatore Carlo V.

In origine tutte le raffigurazioni della “Vara” erano viventi, ma, a poco a poco, dopo gli incidenti del 1681 e del 1738, risoltisi miracolosamente senza vittime e le vibrate proteste di intellettuali ed organi di stampa, specialmente nell’Ottocento, i bambini viventi furono tolti nel 1866 e sostituiti da angioletti di legno e di cartapesta. Anche l’uomo rappresentante Gesù Cristo e la giovinetta tredicenne impersonante la Vergine, ricordati dall’architetto e pittore Jean Laurent Houel nel 1776 che, nella sua opera “Viaggio pittoresco nell’Isola di Sicilia” stampata a Parigi nel 1784, descrive in termini entusiastici la processione della Vara, furono sostituiti da statue lignee: scomparvero, così, anche l’antica tradizione del dialogo in dialetto fra il Cristo e la Vergine (riportato da Placido Samperi nel 1644) e la questua della ragazzina che impersonava Maria, vestita del costume indossato sulla Vara e con l’aureola in testa, nei giorni successivi alla processione.

 

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Munita in origine di ruote, dopo il 1565 queste furono sostituite da pattini in legno (oggi d’acciaio) per consentirne il trascinamento sul selciato. E a trascinare la Vara, mediante lunghe gomene, è il popolo messinese, con l’azione congiunta di “capicorda”, “vogatori”, “timonieri”, “macchinisti”, e “comandante”, al grido di “Viva Maria!”: “Quell’urlo selvaggio, clamorosissimo di tante migliaia di bocche fa venir la pelle d’oca, fa levare il cappello alle anime pie, fa scorgare una lagrima”, annotava 

“L’illustrazione popolare” nel 1888.

Perché “Maravigliosa festività” è questa, scriveva nel 1591 Gioseppe Carnevale, dottore in legge, e, la Vara, “…per l’altezza, e grandezza sua; e anco per l’ammirabile arteficio, e magistero, si tiene che sia, la più bella, e pomposa cosa del Mondo.”.  

La processione si svolge il 15 Agosto, ma i preparativi per il montaggio della “Machina” iniziano il 1° agosto, con il trasporto del “cippo” in piazza Castronovo. Qui, giorno dopo giorno, si montano i vari pezzi, terminando l’approntamento il 13 agosto. Il culmine della preparazione avviene tra la notte del 14 e del 15 agosto, per concludersi nel primo pomeriggio con la collocazione, la legatura e la stesura della gomena in canapa in due tratti di 100 metri che, una volta realizzati i cappi iniziali dove prenderanno posto i capi-corda,  sono utilizzati dagli oltre mille tiratori, in costume bianco e fascia azzurra ai fianchi, per far scivolare sull’asfalto continuamente bagnato da autopompe, la pesantissima “Machina”.

La sera della vigilia viene celebrata la Messa, davanti alla Vara, dal cappellano con il tradizionale rituale dell’offerta di fiori, da parte di devoti, sulla bara di vetro della Madonna. Il 15 agosto, giorno dell’Assunzione della Vergine, tutto è pronto per la partenza che avviene, puntualmente come ogni anno, alle ore 19,00.   

La processione del 2001 ha visto il ritorno di una bella quanto storica novità: un cero votivo di 16 libbre, voluto e fatto realizzare dal timoniere della Vara Franco Forami e portato a spalla da otto portatori. Il cero riprende una tradizione del sec. XVII che vedeva sfilare 12 ceri da 16 libbre, offerti dal Clero e dalle associazioni degli artigiani, tradizione interrotta dopo il terremoto del 1908. 

Alle 19,00 in punto, allo sparo dei mortaretti, il comandante della Vara dà il segnale di partenza, in piazza Castronovo, agli oltre mille tiratori che iniziano il traino al grido di “VIVA MARIA”, guidati dagli oltre 50 timonieri e vogatori che, facendo forza e leva su delle lunghe stanghe di legno, imprimono la giusta traiettoria impedendo spostamenti laterali che potrebbero portare la Vara fuori strada, o addirittura al suo capovolgimento. Dietro il “cippo”, partecipano alla processione il sindaco con tutte le autorità civili, militari e religiose.   

La “Machina” scivola lungo la via Garibaldi tra due grandi ali di fedeli che, di anno in anno, aumentano a dismisura ed è uno spettacolo unico e suggestivo la visione dei tiratori, nei loro costumi bianchi con la fascia azzurra, che si aggrappano alle corde e nel frattempo tirano la Vara  invocando “‘a Matri Assunta”; è commovente perché la stragrande maggioranza lo fa per voto, devozione o per chiedere la guarigione di un parente ammalato. Giunta dinanzi al palazzo della Prefettura, quindi all’incrocio con il viale Boccetta davanti alla Stele della Madonnina ed in piazza Unione Europea, vengono eseguiti fuochi pirotecnici con bombe cosiddette “a giorno”.

Quando la Vara viene fermata all’incrocio della via Garibaldi con la via Primo Settembre, per arrivare in piazza Duomo deve essere girata su sé stessa; per far ciò, le corde vengono allungate oltre l’incrocio e, una per volta, sono sollevate e portate sulla via Primo Settembre. Quando tutto è pronto, il Capo Vara dà il segnale di via ed è questo il momento più difficile ed impegnativo per i timonieri, perché sono proprio loro a dover correggere eventuali errori di traiettoria per immetterla in posizione esatta sull’asse della strada. E qui, tra gli applausi e le grida di “Viva Maria”, si riprende la corsa verso la Cattedrale dove la Vara arriva tra il tripudio di una piazza ricolma di fedeli, fermandosi davanti alla porta principale del Duomo.

Dopo l’Omelia dell’Arcivescovo, che a conclusione impartisce la Santa Benedizione, i fedeli lentamente lasciano la piazza per entrare in Cattedrale ed assistere alla Santa Messa. Per tradizione, poi, ci si reca in Fiera e sul lungomare per assistere ai fuochi pirotecnici eseguiti da tre diverse ditte, che illuminano di spettacolari e policromi bagliori le placide acque del mare sotto la Madonnina benedicente del porto.

I Ceri Storici

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Il Cero Storico

Su iniziativa dell’antiquario Francesco Forami e con la collaborazione dell’architetto Nino Principato che ha dipinto gli stendardi, entrambi messinesi e già componenti della Commissione Storico - Scientifica per la Vara e i Giganti del Comune di Messina,  è stato portato per la prima volta in processione, il 15 agosto del 2001, durante il traino della Vara dell’Assunta, il “Cero Storico”. Il Cero approntato da Forami recupera un’antica tradizione della città che era scomparsa  dopo il terremoto del 1908. Tradizione già attestata dal dotto gesuita Placido Samperi nel 1644 che nella sua “Iconologia della gloriosa Vergine...” scrive: “Seguono dietro la Bara alcuni Cerei molto grandi di diversi Artisti, ornati con l’insegne delle loro Arti, ch’offeriscono ogni anno, picciolo tributo delle loro fatiche, alla Beata Vergine”.

Nel secolo successivo il pittore e architetto francese Jean Laurent Houel, che assistette alla processione della Vara nel 1776, così descrisse l’usanza di questi ceri votivi: ”Questa processione si apre con una compagnia di soldati a piedi con fucili in ispalla, seguiti da due tamburi e sei trombe; poi da dodici enormi ceri di sedici pollici di diametro e di circa sei piedi di altezza; ciascuno de’ quali è posto su di una barella portata da otto uomini l’uno accanto all’altro e che vanno immediatamente innanzi la Bara”.

I ceri ricordati dall’Houel, detti popolarmente anche “cilii”, venivano offerti spontaneamente (come avviene ancora oggi a Catania per la festa di S. Agata, con le cosiddette “candelore”) dalle corporazioni di arti e mestieri, dal clero, dallo Stradigò  e Senato messinese, dai sovrani di Sicilia, dagli ufficiali della Tavola Pecuniaria e dai Consolati della Seta e del Mare. Il Cero Storico, portato a spalla da otto uomini che indossano pantaloni, camicia bianca e sciarpa azzurra ai fianchi, è montato su un antico fercolo in legno scolpito e zecchinato messo a disposizione dalla Confraternita S. Maria di Porto Salvo dei Marinai, contenuto in un elaborato supporto in ferro battuto indorato e recante le insegne di Messina e della Santa Sede, come riferimento allegorico alla Chiesa Cristiana Cattolica.

Quattro stendardi dipinti ad olio sintetizzano, emblematicamente, la grande devozione che il popolo messinese ha sempre tributato alla Madre di Cristo, la Vergine Maria, e alla sua umile ancella, Santa Eustochia Calafato. 

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Gli stendardi rappresentano :

  • La Madonnina del Porto, forse il simbolo più conosciuto e a cui i messinesi sono maggiormente legati, raffigurante la Madonna della Lettera che nell’anno 42 pose la città di Messina sotto la Sua materna protezione e consegnò agli ambasciatori messinesi il chirografo con la formula di benedizione( “Vos et ipsam civitatem benedicimus”, le parole conclusive), legato da alcuni suoi capelli. La gigantesca statua bronzea modellata dallo scultore di Nizza di Sicilia Tore Edmondo Calabrò, che si ispirò al simulacro d’argento raffigurante la Patrona di Messina che viene portato in processione il 3 giugno, opera dello scultore Lio Gangeri del 1902, venne posta su una stele votiva  progettata dall’ing. Francesco Barbaro. La colossale struttura, voluta dall’Arcivescovo del tempo Angelo Paino, venne inaugurata la domenica del 12 agosto 1934 ed illuminata  dal pontefice Pio XI da Castel Gandolfo, per mezzo di un’apparecchiatura radioelettrica predisposta  da Guglielmo Marconi.   
  • Il Vascelluzzo, rappresenta la sintesi emozionale, in forma di ex-voto d’argento, di tutti i tremendi periodi di carestia che Messina attraversò durante la sua tormentata storia, e superati positivamente per intercessione di Maria Vergine: nel 1301, durante l’assedio di Roberto d’Angiò; nel Cinquecento;  nel 1603; nel 1636 e nel Sabato Santo del 1653. L’intervento della Madonna della Lettera, in tutti questi casi, fece si che giungessero in porto navi cariche di frumento. L’incarico per la realizzazione della preziosa scultura venne affidato ad un ignoto cesellatore, e, già nel gennaio del 1576, la baretta raffigurante una nave mercantile del sec. XVI in argento, era completata. Il 7 febbraio dello stesso anno i confrati della Confraternita dei Marinai,  presso la chiesa di S. Maria di Porto Salvo, ottennero l’autorizzazione a collocare, sul Vascelluzzo, la pigna in cristallo di rocca contenente la reliquia dei capelli della Madonna.
  • La Vara, la più antica “Machina“ festiva messinese le cui origini documentate risalgono al 1535 ma, certamente, di concezione molto più antica. Rappresenta l’Assunzione dell’Anima della Madonna in Cielo, mediante un complesso apparato di figurazioni allegoriche in movimento (la “Dormitio Virginis” alla base del ceppo; le gerarchie angeliche; i sette Cieli; il sole e la luna; lo zodiaco) culminante con la figura del Cristo che porge l’Alma Maria” alla diretta visione di Dio, nell’Empireo. Un tempo interamente vivente, viene trainata con lunghe gomene dai devoti messinesi e governata da un equipaggio composto da Comandante, Timonieri, Vogatori e Capicorda.
  • Santa Eustochia Calafato, nata in un’umile stalla ancora esistente e trasformata in tempietto nel Villaggio SS. Annunziata, il 25 marzo del 1434, morì il 20 gennaio del 1485 dopo un’esistenza prodigiosa dedicata al Cristo Crocifisso e a Maria, Sua Madre. Edificò, a partire del 1457, il monastero di Montevergine sotto la rigida osservanza della regola di Santa Chiara che sorge in via XXIV Maggio. L’11 giugno 1988, durante la sua visita a Messina, Papa Giovanni Paolo II proclamava Santa la modesta ed umile clarissa Eustochia, Colei che nonostante i contrasti, le delusioni, le beffe, riuscì a creare un’oasi di spiritualità e di vita francescana nella opulenta Messina del ‘400.                

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Il Cero dei Compatroni di Messina

Anche questo realizzato per fede dall’antiquario Franco Forami con la collaborazione dell’arch. Nino Principato che ha dipinto gli stendardi realizzati dal maestro sarto Santi Macchia, e di Pippo Landro che ha eseguito le parti lignee della baretta di sostegno, è stato portato per la prima volta in processione  il 15 agosto 2003. Il Cero dei Compatroni di Messina è alto complessivamente metri 4,30, montato su un fercolo in legno scolpito e zecchinato con decorazioni lignee ad altorililievo, anch’esse zecchinate, contenuto in un elaborato supporto in ferro battuto indorato, reca le insegne di Messina e il tricolore. Sul basamento della baretta è collocata una statuetta dorata raffigurante la Madonna della Lettera, Patrona di Messina, replica fedele di quella posta sulla stele votiva all’imboccatura del porto, realizzata dallo scultore di Nizza Sicilia Tore Edmondo Calabrò nel 1934, che si ispirò a quella modellata da Lio Gangeri nel 1902. Quattro stendardi dipinti ad olio sintetizzano, emblematicamente, oltre la grande venerazione che il popolo messinese ha sempre tributato alla Madre di Cristo, la Vergine Maria, la devozione verso i Santi Compatroni, Alberto e Placido:

  • Santa Maria del Buon Viaggio, lo stendardo riproduce uno splendido dipinto ad olio del 1610, opera di Giovanni Simone  Comandè, custodito nella seicentesca chiesa di Gesù e Maria del Buon Viaggio al Ringo. Il soggetto, tipico della fede mariana della gente di mare, si integra con quello della Madonna di Porto Salvo il cui quadro si conserva nella chiesa dei Marinai: nel primo, la Madonna proteggeva quanti si mettevano in viaggio per mare; nel secondo, quanti rientravano sani e salvi in porto.
  • Santa Maria di Montalto, lo stendardo raffigura la Madonna della Lettera in forma di “Dama Bianca“, così come rappresentata in un dipinto di Adolfo Romano degli anni Trenta, sul colle della Caperrina dove oggi sorge il Santuario di Montalto. La prima apparizione mariana risale al tempo della guerra del Vespro nel 1282 quando la Madonna, l’8 agosto di quell’anno, protesse i messinesi asserragliati nelle fortificazioni della Caperrina dagli attacchi angioini. In quella ed in altre successive circostanze, vestita interamente di bianco, spandeva intorno un velo di nebbia  per nascondere le mura al bersaglio degli arcieri angioini e respingeva lei stessa, con le  mani, le frecce  e le pietre scagliate dalle catapulte nemiche, facendole ricadere nel loro stesso accampamento.
  • S. Alberto, Santo carmelitano di origine trapanese, venne proclamato compatrono della città di Messina quando nel 1301, durante l’assedio di Roberto d’Angiò, a lui si rivolse Federico  II d’Aragona re di Sicilia, per intercedere con le sue preghiere presso Dio per la salvezza della città, ridotta allo stremo dalla fame. Sant’Alberto degli Abati, che allora viveva in fama di santità a Messina in un convento carmelitano, celebrò la Messa e pregò lungamente per la città. Aveva appena finito quando in porto entrarono, superando miracolosamente lo sbarramento  delle navi angioine, tre vascelli carichi di frumento. L’episodio prodigioso, seguito da tanti altri nella storia di Messina, fece si che venisse realizzato alla fine del Cinquecento il “Vascelluzzo“ in forma di ex-voto d’argento, portato ancora oggi in processione dalla Confraternita di S. Maria di Porto Salvo dei Marinai nel giorno del Corpus Domini.
  • S. Placido, l’abate Placido, figlio di Tertullo nobile romano e Faustina, messinese, venne mandato a Messina da San Benedetto, verso il 536, per fondare un convento benedettino. Lo raggiunsero in seguito i fratelli Eutichio, Vittorino e Flavia e tutti insieme vennero martirizzati, per non aver abiurato la fede cristiana, dal pirata MamuKa nell’anno 541. Sepolti in un loculo sotterraneo della chiesa dal monaco Gordiano scampato alla strage, i loro corpi vennero rinvenuti durante alcuni lavori nel sacro tempio, il 4 agosto 1588. Per l’occasione furono tributati grandi festeggiamenti per il loro ritrovamento, San Placido fu eletto compatrono della città e il Senato dispose la costruzione di un adeguato santuario per custodirne le spoglie: è la chiesa di S. Giovanni di Malta, in parte risparmiata dal terremoto del 1908.

Il Cero di Muricello e Giostra

Luciano Tringali, devoto della Beata Vergine Maria e particolarmente legato alla processione della Vara del 15 agosto, negli anni Ottanta assieme ad un gruppo di devoti dei quartieri "Muricello" e "Giostra", costruì il cero collocandolo su un’artistica “baretta“ con le insegne dell’antica marineria messinese e quello della città di Messina. Tutti i portatori indossano pantalone bianco, camicia celeste e fascia amaranto ai fianchi. Per due anni, a seguito della prematura morte di Tringali, il cero non venne più portato in processione, ma i figli Nico  e Antonio, per rispettare la volontà del padre, nel 2001  ripresero la tradizione riportata in vita, dopo quasi cento anni,  dal padre Luciano.  

La festa del Ringo a Messina

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Tra il Cinquecento ed il Seicento il “Ringo” venne identificato come una strada in terra battuta che va da Ritiro  fino alla marina di San Francesco di Paola, ma, come borgo, fino al 1606 non aveva una sua ben precisa fisionomia  urbana.

Solo nella prima metà del Seicento inizia a diventare un aggregato urbano in grado di condurre propria vita autonoma, e, tra il 1598 ed il 1604, si edifica la chiesa di Gesù e Maria del Buonviaggio che rappresenterà il centro religioso del borgo marinaro.

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La processione del simulacro della Madonna del Buonviaggio avviene ogni anno l’ultima domenica di agosto, portato a spalla dai fedeli in tutto il quartiere per rientrare in chiesa dopo circa quattro ore. E’ tradizione, in via Duca degli Abruzzi, far scendere  dall’alto di un balcone un angioletto che si ferma in prossimità del fercolo della Madonna, recandoLe un omaggio floreale.

La festa è caratteristica per il “palo a mare”, una sorta di albero della cuccagna  proteso sul mare orizzontalmente e che, unto di grasso, è preso d’assalto da giovani e non per conquistare i premi messi in palio per il primo che raggiunge la sua estremità e strappa la bandierina. Nelle prime ore del pomeriggio si svolge un palio marinaro con tipiche barche a remi delle contrade marinare di Ringo, Paradiso, Pace, S.Agata e Faro; fa parte della tradizione lo sparo dei fuochi pirotecnici, a conclusione della festa, senza tralasciare la tipica quanto ormai storica esibizione pirotecnica del “Cavadduzzu e l’omu sabbaggiu“.