Gesù e Maria del Buon Viaggio

     

Era il 1598 quando si dava mano, nel borgo del “Ringo”, alla costruzione di un oratorio voluto dal “Gentiluomo messinese” padre Lorenzo Abate, con licenza dell’arcivescovo di Messina, mons. don Francesco Velardes della Cuenca. Nasceva, così, anche la devozione tutta messinese alla Madonna del Buonviaggio che, in poco tempo, si andò talmente incrementando da richiederne l’ampliamento e la trasformazione architettonica a carattere monumentale.

E’ il dotto gesuita Placido Samperi ad informarci di ciò, da testimone oculare quando nel 1644 dava alle stampe la sua ponderosa “Iconologia della Gloriosa Vergine Madre di Dio Maria Protettrice di Messina” : “Ma perché la chiesa è un poco angusta, essendosi accresciute, per la clemenza, e salubrità di quell’aria, le habitationi intorno, alcune persone, che stanno quivi vicino, e han particolare divotione alla Beata Vergine, han pensato di dilatare i confini di essa, facendola più capace; e han cominciata una sontuosa facciata, dalla quale si argomenta l’artificioso disegno del futuro edificio”.  Ignoto è rimasto l’architetto artefice di questa “sontuosa facciata” che si mosse, comunque, nel solco del tardo manierismo romano ispirandosi alla chiesa del Gesù, appunto il tipo della chiesa controriformata, progettata da Jacopo Barozzi detto “il Vignola” nel 1571 con la facciata ideata da Giacomo della Porta nel 1575.

Una facciata tutt’altro che schematica, arricchita da nicchie con le statue a tutto tondo di Gesù e Maria tenenti un tempo, attraverso fori nelle mani, due lampade a servire da guida e riferimento nella notte a pescatori e naviganti; da lesene binate di ordine composito; dal frontone triangolare.

Un occhio a Roma, quindi, ed uno a Messina, alla grande tradizione tardo-rinascimentale di architetti come Giovan Angelo Montorsoli e Polidoro Caldara da Caravaggio. Di quest’ultimo, in particolare, è la citazione dei motivi decorativi fitoformi dei portali laterali della Cattedrale nell’architrave del portale della chiesa del Ringo.

Una chiesa ad unica navata, una grande aula non mediata da colonne o pilastri e perciò perfettamente funzionale ad accogliere un maggior numero di fedeli per la devozione collettiva. Ed una pinacoteca che custodisce preziosi dipinti testimonianza delle arti figurative messinesi del ‘600 e del ‘700, in un’architettura religiosa coeva che rappresenta un fatto eccezionale per la città: il “Trionfo della Croce tra Gesù e Maria”, grande tela di ignoto (sec. XVIII); la “Madonna del Rosario col Bambino e i santi Domenico e Caterina”, dipinto di ignoto (sec. XVIII); “S. Antonio di Padova con il Bambino Gesù” (sec. XVII) e la “Madonna del Buon Viaggio” (1610) di Giovan Simone Comandè. Quest’ultimo dipinto, oltre che essere una pregevole opera d’arte, rappresenta una notevole testimonianza di

com’era la forma urbana di Messina agli inizi del Seicento poiché raffigura la città vista dal porto, a volo d’uccello.

Gesù e Maria delle Trombe

Sulla  via San Giovanni Bosco, nello stesso corpo edilizio dell’isolato 244,  sorge una piccola chiesa barocca intitolata a Maria e Gesù delle Trombe, così detta per le vicine, antiche tubazioni del civico acquedotto, dette volgarmente << trombe >>.

Fatta costruire nel 1626 da Padre Antonio Fermo da Gesso, era decorata con marmi, stucchi e cornici; aveva anche oratori e due Cappelle per lato, due delle quali erano più grandi della navata centrale.

Tutto questo andò distrutto con il terremoto del 1908, e, la sua ricostruzione, ebbe inizio nel 1918 ridimensionando notevolmente la pianta, tanto che oggi si presenta con un' unica navata.

L’opera più preziosa che si conserva è un Bambino Gesù in cera, detto "delle Lacrime" perché pianse prodigiosamente, ad intervalli, dal 23 febbraio 1712 al 13 marzo del 1723, cioè, per 11 anni e 20 giorni, mentre era ancora custodito nella chiesa di S. Gioacchino. La chiesetta ha l’altare maggiore in stile barocco a tarsie marmoree policrome, sovrastato da una nicchia coronata da una testina d’angelo. Si conserva anche un prezioso confessionale in legno scuro massiccio del ‘600. Fra i dipinti, “Gesù e Maria accanto alla Croce” di Niccolò Mazzagatti (1783); la “Vergine” e “S. Giovanni” di Antonino Bova (1692); “Gesù nell’orto” e la “Flagellazione” di Luigi Velpi (1762).     

Maria SS. Annunziata di Catalani

Venne edificata nel periodo che va dal 1150 al 1200, secondo la tradizione sugli avanzi del tempio di epoca classica dedicato a Nettuno. Denominata anche “Annunziata di Castello a mare” o di “Castellammare” per la sua vicinanza all’omonima fortezza ubicata a guardia dell’insenatura del porto e della darsena, nel secolo XIII fu accorciata con arretramento della facciata, probabilmente a seguito di un terremoto e sulla nuova parete vennero inseriti i tre portali, il mediano centinato e i laterali architravati con arco di scarico.  Nel 1270 venne affidata ai padri Domenicani, quindi, ad una congregazione di mercanti catalani sotto il regno aragonese e, nel 1607, ai chierici teatini che ne ebbero la loro prima sede a Messina per circa due anni. Restaurata in epoca aragonese e quindi elevata al rango di cappella reale ed immune da ogni ordinaria giurisdizione, veniva assegnata dai re, che si succedevano di volta in volta, a persone di loro gradimento. Tutto questo in ottemperanza ad una disposizione di re Ludovico, che aveva annesso la chiesa ad un ospedale di trovatelli sotto l’amministrazione di un rettore e ciò durò fino al 1507. Passò quindi al Senato messinese perché provvedesse alla sua gestione e, a seguito del terremoto del 1783 che aveva distrutto la chiesa di S. Nicolò all’Arcivescovado, venne elevata a parrocchia. L’altro sisma del 28 dicembre 1908 la risparmiò e facendo crollare tutte le superfetazioni di epoca barocca ed i corpi di fabbrica addossati all’esterno del settore absidale, riportò alla luce le primitive strutture architettoniche. Dal 1926 al 1932 si procedette ai lavori di restauro e consolidamento statico ad opera del Soprintendente ai Monumenti arch. Francesco Valenti.

A pianta basilicale con tre navate, tre absidi e cupola innestata sul transetto con pennacchi sferici, vi si nota un addensarsi di vari influssi che, nell’immagine architettonica complessiva, le conferiscono un carattere stilistico ibrido e attardato rispetto all’epoca nella quale sorse.  Nel settore absidale esterno sono riproposte suggestioni decorative bizantine con una fascia di pietra bicolore alternata, che sottolinea lo svolgersi dell’elegante loggiato cieco punteggiato da esilissime colonnine e ricoprente tutto il settore per poi ripetersi sul tamburo della cupola.

Tale sistema compositivo si rifà a modelli del romanico pugliese, lombardo e pisano. Lo stile romanico pisano che fu adottato anche per la facciata della Cattedrale di Lucca, il romanico pugliese che si sovrappose alla tradizione bizantina e si fuse con la tecnica costruttiva normanna e con gli elementi decorativi islamici, e, il romanico lombardo improntato alla tradizione locale dei maestri comacini, sono i modelli stilistici ai quali si ispira l’oscuro architetto progettista della chiesa dei Catalani nel riproporre in maniera personale la ritmica successione degli archetti e delle loggette. Delle tre absidi, solo quella centrale emerge all’esterno, restando incluse dentro lo spessore murario le altre due laterali; soluzione, questa, che oltre ad avere precedenti nell’architettura bizantina, si riscontra in molti monumenti del periodo normanno quali, ad esempio, S. Maria di Mili a Messina e S. Giovanni degli Eremiti e la Zisa a Palermo. Lo scopo di tale artificio architettonico è quello di conferire ai volumi uno stereometrico e cristallino risalto.

Il portale principale, sormontato dallo stemma romboidale aragonese, presenta caratteri tardo romanici normanno-lombardi nei capitelli e bizantini negli stipiti, mentre elementi di imitazione tardo-romana si riscontrano nei capitelli dei portali minori. Il piano di calpestìo della chiesa e quello del cortile circostante sono alla quota della città antica, quota che si è andata via via sollevando per le continue alluvioni, straripamenti torrentizi ed accumulo di macerie causate dai terremoti: la stessa antica quota è riscontrabile nella chiesa di S. Maria degli Alemanni.

All’interno, le colonne rincassate dell’abside maggiore e alcuni capitelli testimoniano dell’influenza araba; di quella arabo-bizantina nella cordonatura dell’arco trionfale e nella sua morfologia a peduccio rialzato; di quella normanno-lombarda le strette ed alte finestre delle navate e della cupola e di quella bizantina, per la  maniera di trattare con spessi strati di calce e lunghi mattoni la cupola, l’abside e le finestre, oltre alla copertura della navata principale di tipo mediterraneo a volta a botte, elemento tipicamente bizantino con agganci al razionalismo costruttivo arabo.

Tutto ciò conduce ad un eclettismo architettonico che caratterizza la chiesa dei Catalani nella sua diversità da altri monumenti normanni dell’Italia meridionale: in essa si condensano culture latine, bizantine ed arabe.

            

       

Pompei

La storia di questa chiesa è fatta di ricostruzioni, dovute principalmente ad esigenze di spazio a seguito del numero crescente di fedeli che la affollavano, al terremoto ed alle guerre.

Il sisma del 1908 distrusse il tempio originario, edificato dai Padri Cappuccini nel 1888. Gli stessi frati lo ricostruirono e lo riaprirono al culto nel 1909. Più volte la chiesa è stata ingrandita perché insufficiente a ricevere tutti i parrocchiani, e, così, nel 1917, i religiosi decisero di ricostruirla più grande, a monte del sito originario ed in posizione elevata, da dove si ammirava tutto lo Stretto e la Calabria. Su progetto dell’ing. Trifiletti, la prima pietra fu posta il 12 ottobre1924 da Mons. Paino che nel 1933, in occasione della sua riapertura al culto, donò alla chiesa una campana di 16 tonnellate. Durante la Seconda guerra mondiale, il 7 aprile 1943, colpite da numerose bombe, l’abside e la navata centrale sprofondarono. A conflitto finito, i Padri Cappuccini si rimboccarono le maniche e ricominciarono a costruirla su progetto dell'architetto Filippo Rovigo, per la settima volta, riconsacrandola al culto il 28 aprile 1951.

Sulla facciata esterna si ammira un mosaico della "Madonna del Rosario" di Pompei attorniata da angeli e santi, al disopra di un grande arco che sovrasta il portale d’ingresso,  ricco di decorazioni e statue. All’interno, la navata centrale poggia su pilastri con archi ogivali a sesto acuto; sull’altare maggiore risalta un gruppo statuario in legno della "Madonna del Rosario col Bambino, San Domenico e Santa Caterina", opera degli artigiani di Ortisei. Alle pareti si trovano quindici dipinti di Padre Dionigi di Adrano, raffiguranti i "Misteri del Rosario". Particolarmente pregevole è un altarino del 1866 in legno intarsiato, dedicato a San Michele Arcangelo.     

S. Antonio Abate

Sul Corso Cavour sorge la chiesa di S. Antonio Abate, progettata dall'ing.Francesco Barbaro e costruita dall’impresa f.lli Cardillo tra il 1928 e il 1930. Prima del terremoto del 1908, sullo stesso sito, sorgeva la chiesa dell’Annunziata dei Teatini, eretta nel‘600 su progetto dell’architetto modenese Guarino Guarini.

Esternamente si presenta simile alla Basilica di Superga di Filippo Juvarra; il suo ingresso è affiancato da quattro colonne, due per lato, che le danno un' austerità  tipica delle chiese  Romane. Nell’antingresso, sulla sinistra, in una cappelletta è custodito un Crocefisso in cartapesta con croce in legno (sec. XIX).

Nell’interno, che ha pianta circolare articolata su otto colonne centrali sulle quali poggia una grande cupola con lanternino, sono custodite una statua cinquecentesca della "Madonna con Gesù giovanetto", attribuita alla scuola del Montorsoli;  una statua in marmo di "Maria Addolorata" ed un pregevolissimo fonte battesimale. Le volte absidali furono affrescate dal pittore messinese De Pasquale, con le raffigurazioni dello "Sposalizio della Vergine", dell’”Annunziata” e della “Natività”.

S. Giovanni di Malta

La chiesa di S. Giovanni di Malta, secondo la tradizione, fu fondata da S. Placido e dedicata a S. Giovanni Battista il 28 luglio del 540 dal vescovo di Messina Eucarpo. Distrutta dal pirata saraceno Mamuka nel 541, quando trovarono la morte il fondatore, i suoi fratelli Eutichio e           

Vittorino e la sorella Flavia, fu ricostruita dai Benedettini e quindi donata dal Gran Conte Ruggero, nel 1099, ai Cavalieri Gerosolimitani. Eretta a Priorato nel 1136, vi alloggiò Papa Alessandro III nel 1165 ed Eleonora, figlia di Carlo di Napoli, nel 1302. Il 4 agosto 1588, nel corso di lavori interessanti le fondazioni mentre era Gran Priore di Sicilia dell’Ordine Gerosolimitano fra’ Rinaldo Di Naro, vennero portate alla luce delle sepolture con resti umani, identificati per quelli di S. Placido e dei suoi fratelli. Per l’occasione la chiesa venne ricostruita su progetto degli architetti Francesco e Curzio Zaccarella, padre e figlio, mentre alla tribuna lavorarono Camillo Camiliani e Jacopo del Duca; i lavori terminarono nel 1653. Danneggiata dal terremoto del 1783, crollò in parte in quello del 1908. Conserva il pregevole sarcofago marmoreo che custodisce le spoglie del grande Francesco Maurolico (1494- 1575).

Secondo Giuseppe Samonà, la tribuna è da attribuire all’architetto fiorentino Camillo Camiliani in quanto egli, nel 1590, approntava i capitoli per l’appalto della nuova costruzione sulla base dei suoi disegni progettuali. La più antica testimonianza che indica quale autore Jacopo del Duca, è quella di Placido Samperi nel 1644, e, tra l’altro, il del Duca tenne anche la carica di architetto del Senato fin dal 1592. I lavori hanno inizio nel marzo del 1591, quindi, sono abbandonati per essere poi ripresi nei primi anni del sec. XVII e portati a compimento, con il resto della chiesa, nel primo ventennio dello stesso secolo. Tenuto conto che il Camiliani, in quel periodo, era continuamente in giro per la                                 

Sicilia ad assolvere l’incarico ricevuto di ispezionare tutte le fortificazioni e torri costiere esistenti, progettandone di nuove dove lo avesse ritenuto necessario, è plausibile che Jacopo del Duca portasse avanti i lavori, in sostituzione del Camiliani, stravolgendone totalmente il progetto originario.

L’impianto della tribuna è cinquecentesco, con limpida e lineare inquadratura architettonica ottenuta con l’appiattimento degli elementi decorativi contro la parete muraria di supporto, dalla quale aggettano in contenuti spessori. Lo schema compositivo dell’unico ordine di paraste che ingabbiano la facciata con

continuità dal basso verso l’alto, costituisce elemento acquisito dall’ordine gigante romano, come si può vedere anche nelle absidi michelangiolesche della Basilica di S. Pietro; le campiture tra parasta e parasta, tessute da una sottile trama di mattoni a vista che esalta e fa emergere i vani curvi in nicchia, hanno profondi legami con la cupola di S. Maria di Loreto e con la facciata di Santa Maria in Trivio, entrambe opere romane di Jacopo del Duca. 

L’intenzione manifesta è, dunque, quella di conferire al prospetto, nella sua globalità, la veste di uno scenografico monumento funerario di michelangiolesca suggestione, dietro al quale stanno le spoglie dei martiri, creando una composizione a vani curvi poco comune in Sicilia, ma che ha la sua diretta filiazione nell’architettura religiosa romana del Cinquecento. L’apparato architettonico della tribuna costituisce, comunque, un prezioso documento per la città, in quanto elemento di transizione dal manierismo al barocco: barocca è, infatti, la concezione anticlassica del telaio spaziale, scandito dalle alte paraste, senza soluzione di continuità. Ciò dimostra, eloquentemente, quanta differenza c’era tra Jacopo del Duca ed Andrea Calamech, entrambi operanti a Messina alla fine del Cinquecento; entrambi permeati di manierismo michelangiolesco, ma decisamente anticlassico il primo, quanto, invece, era legato ad un conformismo classicheggiante, il secondo.

S.Elia

Imperversando la peste a Messina, nel 1743, il Senato elesse S. Elia copatrono della città, insieme alla Madonna della Lettera. Una bella chiesa era già stata dedicata al santo ed è la stessa che ancora oggi sorge, sopravvissuta agli scempi ed agli sventramenti del dopo terremoto, sull’omonima via, accanto al palazzo sede del Comando Brigata Aosta e del Circolo ufficiali del Presidio militare.

L’interno è tutto un tripudio di decorazioni a stucco, probabilmente degli Amato che, insieme ai Biundo ed ai Viola, dominarono il panorama artistico dell’epoca, al punto da essere definiti “incisores lapidarum messanensis”.

Questa tipica, esplosiva e fortemente plastica decorazione, proseguiva e portava alle estreme conseguenze nel 1694, anno in cui veniva realizzata in S. Elia, quell’incisiva corrente decorativa derivata dall’arte dell’architetto bergamasco Cosimo Fanzago (1591-1678). Arte suggestiva e virtuosistica, introdotta nella nostra città dal fiorentino Innocenzo Mangani nel 1653 e da Andrea Gallo nel 1657, che si svilupperà e manterrà per tutto il Seicento e parte del Settecento.

Intimamente legati agli stucchi, in una felice commistione di pittura e scultura, sono gli affreschi raffiguranti la “Natività,” l’”Adorazione dei Magi”, “Gesù Bambino nel Tempio” ed il “Battesimo di Cristo”, opere dei fratelli Antonio e Paolo Filocamo realizzate nel 1706.

Questa complessa decorazione – che risente di un gusto fortemente spagnolesco – composta da putti, festoni di frutta, ricamatissimi ornati fitoformi, elaborati capitelli e colonne dove l’architettura entra in intimo dialogo con la scultura, a causa dei noti fatti distruttivi, costituisce oggi un unicum mentre prima del 1908 rappresentava la norma per quasi tutte le chiese cittadine.

La facciata conserva il pregevole portale tardo seicentesco in cui, l’ignoto autore, dimostrò di avere ben assimilato la grande lezione dell’architetto modenese Guarino Guarini (1624-1683) – autore a Messina di ben tre chiese - e molto simile a quello che il dotto monaco teatino realizzò nel suo Palazzo Carignano a Torino.