Il fornaio

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Il fornaio è uno di quei mestieri antichi che ancora resistono. Certo è che anche in questo campo la tecnologia ha profondamente cambiato il modo di fare il pane, le macchine hanno soppiantato l’uomo e i forni non hanno più nulla in comune con quelli di una volta, se non il fatto che forniscono calore per la cottura. Oggi con il termine fornaio o panettiere, indichiamo generalmente colui che fa e cuoce il pane, ma un tempo, i due nomi distinguevano due mestieri differenti: il fornaio era colui che governava il forno, mentre il panettiere, detto anche panfacolo o pistore, intrideva la farina e lavorava l’impasto fino a formare varie pezzature e qualità di pane.

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I forni antichi, che si riscaldavano esclusivamente con legna, hanno lasciato il posto a quelli a gas, o elettrici, muniti di particolari accorgimenti per tenere la temperatura costante, che facilitano enormemente la cottura. I vecchi forni erano costruiti in mattone con piano cottura e un cielo a cupola. Per permettere il buon funzionamento del forno, sopra la cupola veniva messo un bel strato di sabbia che impediva un rapido raffreddamento, mantenendo, per lungo tempo, il calore anche quando non c’era più il fuoco. I forni a legna erano del tutto simili a quelli che si vedono oggi nelle pizzerie, ed adoperano, appunto il forno a legna.

Solo che la pizza viene cotta in presenza di fuoco e brace, mentre il pane veniva infornato dopo che il forno era stato riscaldato, tolta tutta la brace, spazzolato e pulito il piano di cottura (con uno straccio umido attaccato ad un lungo bastone), così si aveva la temperatura ottimale per cuocere il pane. Una volta infornate le pagnotte, il forno veniva chiuso con uno sportellino di metallo sigillato con malta di terra. Trascorso il tempo necessario per la cottura, si estraevano le pagnotte deponendole, in posizione verticale, in cesti di vimini o di canna e si mettevano in commercio.

Il panettiere, o meglio il panfacolo era colui che faceva il pane, e per non perderci in un “mare grande” di modi, di usi, di lieviti, di qualità e pezzatura che nelle varie parti d’Italia, ma anche della nostra provincia c’erano per confezionare il pane, ci affidiamo ad un’opera pubblicata a Venezia nel Settecento, che ci sembra adatta ad illustrare il tutto. “Separata la farina dalla semola, se ne fa pane, riducendola col mezzo dell’acqua in una pasta, e poscia cuocendola nel forno. Nella fabbricazione adunque del pane vi sono tre parti essenziali da considerarsi, il lievito, la pasta, e la cuocitura.

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Dal difetto, o dalla bontà dei lieviti dipende specialmente la buona, o cattiva qualità del pane. Il lievito di semanza è una porzione di pasta, che si serba, dopo che si ha impastato, e che si lascia inforzare per servirsene alla prima occasione, che si vuol fare il pane. Ognun sa, ch’è necessario tenere il lievito da fabbricare il pane o sia l’ultimo difeso dall’aria, e ben coperto; ma quello, che tutti non sanno, e ch’è nondimeno molto facile, e molto utile, si è osservare il punto di perfezione. E’ questa una cosa semplicissima: finché il lievito gonfia, e riscalda, egli fermenta, e tutto va bene. Subito che cessa di rigonfiare, e di riscaldarsi, è segno, ch’è nel suo punto. Allora non vi è un momento da perdere per impastare”.

Ci sono anche i lieviti artificiali e in essi quello di birra: “In alcuni paesi, dove si fa uso per bevanda di birra, s’impiega per lievito questo liquore, che si domanda la lievitatura, di cui ve n’ha di due sorte; l’una liquida, e l’altra secca. La lievitatura liquida è la schiuma, che manda fuori la birra allorquando è versata nella botte, e fermenta. La lievitatura secca è la birra spremuta in un sacco di tela, e ridotta in piccole porzioni morbide e serrate, le quali si conservano. La lievitatura accelera più la fermentazione,che il lievito ordinario, e rende la pasta molto più facile a esser lavorata: ma si risica molto con essa, come con tutti gli altri lieviti: qui accennati, ed è più facile, che il pane riesca forte, amaro o viscoso alla bocca, se non se ne sa fare buon uso.

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Apparecchiato il lievito nel modo sopra esposto s’incorpora con esso la farina con acqua, e s’impasta nella madia. Per far ciò si ammonta tutta la farina alla dritta della madia, e se ne lascia vuoto daccirca il terzo dal lato sinistro; si fa un picciolo rialto di farina pigiata, che separa lo spazio vuoto del monticello della medesima farina; e questo è quello, che si addomanda la forma. Si piglia allora il terzo dell’acqua, che si deve impiegare, si versa né fredda, né calda, ma tiepida nella forma, e in quest’acqua si stempera bene l’ultima lievito. Avvertasi, ch’è un’importantissima operazione lo stemperar bene questo lievito di maniera che non ne rimanga il minimo pastello, e che, il tutto sia liquido e ben disciolto.

Quando il lievito e bene stemperato si apre la forma, e vi si mettono subito i due terzi del monticello di farina, e i due terzi dell’acqua, che rimane, avvertendo di mescolar leggermente la farina, e l’acqua senza formare pastoni, né pastelli, come dicono i fornai. Dopo che si sono ben mescolati questi due terzi della farina, si prende per la seconda volta i due terzi ancora di ciò, che resta, come anche i due terzi dell’acqua, e si mescolano bene impastando con leggerezza come sopra. Finalmente si aggiunge in una terza volta tutto ciò che rimane di farina, e d’acqua operando come sopra.

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Queste tre passate formano quello, che chiamasi la dimenatura della pasta. Si rimena più propriamente di quello che non si dimeni, vale a dire, che ci vuole maggior attività per questa operazione. Consiste questa nel dividere tutta la pasta, la quale non forma, che una sola massa dopo la dimenatura, in picciole parti; poscia innalzandola in pastoni, che si buttano da un capo all’altro della madia gli uni sopra gli altri si divide intrudendovi le mani aperte, e non col pugno serrato.

La rimenatura deve sempre farsi senz’aggiungner farina, o a chiaro, come dicono i fornai. Per conoscere, se la pasta è ben lavorata, bisogna che sia uguale e uniforme dappertutto, e che non si attacchi alle mani: il contrassegno, che la pasta è buona si è che l’impastatore maneggiandola abbia le mani pulite. Non si deve panizzare se non con acqua buona a bere; l’acqua di fiume è la migliore, quella dei pozzi è buonissima, quando se ne attinge spesso; le acque di neve, e di ghiaccio non son buone; e le acque stagnanti guastano il pane, quella di pioggia è il più delle volte cattiva, spezialmente l’estate e l’autunno. Ciò, riguarda la purità, e la bontà del pane”.