Arti e tradizioni popolari

Fiere e Mercati

I latini erano abituati a tenere il mercato ogni domenica e nelle festività. La fiera, per i siciliani “‘a fera”, è stata sempre intesa come mercato principale dell’anno che si svolgeva durante la festa più solenne delle città.

Una delle prime fiere istituite in Sicilia è stata quella di Messina, decretata da Federico II nel 1296 e della durata di 15 giorni.

Successivamente, dal 7 al 15 settembre 1514, fu istituita quella del “Tindaro” dove si davano appuntamento, ogni anno, i più noti imprenditori toscani, liguri, napoletani, veneti, i quali avevano rivenditori nei centri più grossi dell’Isola. La fiera era agevolata dal fatto che, sin dal IX secolo, la devozione verso la Madonna Bruna  che si venera a Tindari, era ed è, ancora oggi, il fattore principale di richiamo per una moltitudine di persone che vi si recavano per  grazia ricevuta, per devozione o per trascorrere una giornata diversa dalle altre, in considerazione anche del fatto che vi si trovavano pasticceri, robivecchi, calzolai, sensali, fattucchieri e maghi provenienti da ogni parte della Sicilia e dalla Calabria.

A Patti, ogni anno l’ultima domenica di luglio, fin dal 1586 si celebra la festa principale della città chiamata”‘A Fera”.  Nel 1608, in considerazione che luglio era un mese poco favorevole, i frati del Convento di Santa Maria di Gesù ottennero di spostarla al 4 ottobre, giorno dedicato a San Francesco. Dopo la scoperta delle reliquie di Santa Febronia a Roma ed il rientro a Patti delle stesse, riposte in un reliquario d’argento con cristalli lavorati, si istituì la festa di Santa Febronia e, con questa, la “Fera“ che diventò la giusta erede di quella del “Tindaro”.

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Sant’ Agata Militello, nel 1800, era uno dei più importanti centri d’affari ed in particolare per quello al minuto, incoraggiato dal fatto che vi funzionavano le Poste e  il Telegrafo; c’erano anche osterie e  fondaci che agevolavano la mobilità di mercanti e compratori,  oltre al primo treno, con relativo scalo ferroviario, nel 1895.

Sant’Agata era e resta famosa per la sua storica “Fiera del Bestiame“ che si effettua ogni anno il 14 e 15 aprile e che con quella di novembre, rappresenta la prima e l’ultima occasione fieristica del circondario per l’approvvigionamento invernale, oltre che primo appuntamento dei nuovi prodotti nei circuiti fieristici.

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La fiera del bestiame assume particolare importanza poichè la compravendita dei capi è intensa e vede giungere, in città, pastori con le loro lunghe teorie di bestiame con legato al collo il campanaccio. Questa sorta di corteo, oltre ad essere caratteristico, è anche bello da vedere perché gli uomini, con il classico vestito in velluto a righe, marrone o nero, portano al collo il loro variopinto fazzoletto (“ muccaturi “) e a tracolla,  sulle spalle, il grandissimo ombrello; in mano, il bastone che serve a richiamare e ricondurre in branco pecore e buoi.

Tutto il mercato del bestiame si accampa sulla spiaggia del Lungomare mentre i venditori di articoli d’abbigliamento, di dolci, di attrezzi ed artigianato, trovano posto sulla  prospiciente strada trasformandola, per due giorni, in un coloratissimo assembramento di ombrelloni e improvvisati box. 

Oggi le fiere sono sempre più deserte, ma, quella di Sant’ Agata, continua a conservare la sua funzione, sia nel settore zootecnico sia in quella del costume, ancora  momento di festa e di aggregazione per tutto il comprensorio dei Nebrodi.

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La Fiera di Messina è un’istituzione storica la cui funzione è andata depauperandosi negli anni per diventare, oggi, una mera esposizione locale, più da mercatino che da Fiera Campionaria Internazionale.

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Posta tra il porto di Messina e la baia di San Francesco, l’area della Fiera è visibile da tutti i punti dello Stretto. Si tratta di un sito tra i più carichi di storia e di memoria: L’ottocentesco “Giardino a Mare Umberto I” con lo Chalet per la musica; l’Irrera a Mare; la Fiera Campionaria. Luoghi cari ai messinesi, ricordi di momenti sani e felici.

Questo giardino, in passato noto, appunto, come lo “Chalet”, fu progettato dall’architetto Luigi Queriau ed inaugurato il 3 agosto 1886. Inizialmente intitolato a re Umberto I, Nel 1934 il prefetto Michele Adinolfi dispose che fosse adattato a sede della Fiera di Messina e qui venne allestita la sua quinta

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Al suo interno sono conservate la fontana in ghisa dell’800, opera di fonditori messinesi; la fontana scolpita da Ignazio Brugnani nel 1738 ed una pregevole statua in ferro che rappresenta un  suonatore di piattini.

 

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L’11 giugno 1988, Papa Giovanni Paolo II vi officiò la Santa Messa solenne nel corso della quale dichiarò Santa la Beata Eustochia Smeralda Calafato, suora clarissa messinese nata nel 1434 e morta nel 1485.

                          

  U PAGGHIARU DI BORDONARO 

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“‘U Pagghiaru“ di Bordonaro, villaggio collinare di Messina, è sostanzialmente, nella forma odierna, un albero della cuccagna.

Indagini più accurate fanno risalire la sua origine all’XI secolo, introdotto dai Padri Basiliani che portarono dall’Armenia l’uso di festeggiare il giorno del Battesimo del Signore con riti solenni celebrati sotto un grande albero a forma di capanna.

Alcuni giorni prima dell’Epifania, un gruppo di persone si reca sui monti vicini per raccogliere i rami da utilizzare per la costruzione del Pagghiaru; generalmente si tratta di rami di corbezzoli, in dialetto locale detti “’mbriacheddi “ perchè era usanza, un tempo, mangiarli in osteria bevendo il vino. Successivamente, in progressione, si erige il palo di sostegno; si assembla la ”cruciera”,  che consiste in una grande ruota composta da due cerchioni di ferro dove vengono fermati, a doppia croce quadra, dei tronchi d’albero; s’innalza la ”cruciera”; si appronta il fasciame esterno, intrecciato secondo le antiche tecniche dei cestai;  si riveste lo scheletro con rami di corbezzolo; si addobba  con arance, limoni, mandarini, ciambelle di pane azzimo, tondini di cartone colorato e cotone idrofilo; si colloca infine, alla sommità del Pagghiaru, una croce ricoperta d’arance, ciambelle, salsiccia. Sarà questa croce il palio della vittoria agognato da tutti gli scalatori.        

Il giorno della festa dell’Epifania, il 6 gennaio, dopo aver celebrato la Santa Messa il parroco si avvia seguito dalla folla di fedeli e dagli scalatori verso lo spiazzo dove è stato eretto “‘u Pagghiaru “. Dopo la benedizione i concorrenti, al segnale di partenza, iniziano ad arrampicarsi sull’intelaiatura oscillante cercando di arrivare per primi in cima e conquistare la croce sommitale. Il vincitore viene acclamato e portato in trionfo mentre tutti gli altri spogliano l’albero, lanciando sulla folla gli addobbi che assumono, così, una funzione apotropaico-devozionale. La scalata al “Pagghiaru”, che è sottolineata nel suo svolgersi dalle note di suonatori di zampogna, si conclude con il tradizionale spettacolo del  “cavadduzzu e l’omu sabbaggiu“, uno spettacolo pirotecnico dove due uomini si collocano dentro strutture di legno a rappresentare un animale ed un uomo selvaggio, in una sorta di lotta-pantomima con scoppi di petardi, mortaretti ed accensione di fiaccole.

U Cavadduzzu e l'Omu Sabbaggiu

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E’ questo uno spettacolo pirotecnico di antica tradizione che si effettua a conclusione  di alcune Feste Patronali. Consiste in una serie di giochi pirotecnici, coloratissimi, con due uomini all’interno di intelaiature di legno a forma equina e l’altra a rappresentare un “uomo selvaggio”, in un simbolico combattimento. Mentre l’animale esegue una forma di danza, l’uomo cerca di tenerlo a bada e di addomesticarlo. Tutta la figurazione è costellata dallo sparo di mortaretti e di fiaccole, collocate su ogni struttura.

La pantomima rituale simboleggia l’incontro dell’uomo con la natura, evidenziata con la lotta dei due personaggi e con la vittoria di chi resiste più a lungo alle cariche esplosive.

La pesca del Pesce Spada  

 

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La pesca del Pesce Spada, a Messina, è un’arte antichissima che si tramanda di padre in figlio. Si pratica nelle acque dello Stretto, dai primi di maggio e fino a tutto agosto, da oltre duemila anni con l’uso, ad inizio stagione, del sorteggio delle “poste” che cambiano a rotazione ogni settimana

Per la caccia al Pesce Spada “u lanzaturi“ ( il lanciatore) è determinante per la cattura della preda, ma, ciò, è sempre subordinato alla qualità  “du ferru“ (del ferro, o meglio, dell’asta con l’arpione ). L’arpione era forgiato secondo canoni tramandati di padre in figlio e pochissimi erano gli esperti “mastri firrara“: uno di questi era “Mastru Ninu Puglisi”, del Villaggio S. Agata, dove visse ed aveva bottega.

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Quando forgiava e batteva gli arpioni stava sempre solo, a conferma del segreto che si è portato, recentemente, nella tomba. I capi barca facevano a gara per avere un suo arpione, che non vendeva ma che dava solo in uso,  ricevendo in cambio una parte del pesce spada catturato. A fine campagna di pesca, i ferri venivano riconsegnati al fabbro che curava la loro manutenzione  sostituendo quelle parti usurate. La morte di “Mastru Ninu” ha lasciato un vuoto incolmabile tra i pescatori che, specialmente i più giovani, lo interpellavano per avere consigli sulla pesca, sulle correnti e sull’uso degli attrezzi. Oggi gli arpioni sono comprati nei negozi specializzati.    
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Anticamente e fino agli anni Cinquanta, la pesca del Pesce Spada si effettuava con due barche: una “Feluca”  con un albero centrale alto 20 metri chiamato”‘ntinna“, dove sulla  sommità trovava posto un osservatore detto “ ‘ntinneri “, ed una barca lunga sei metri e larga m. 1,65 chiamata “Luntro“, munita di una piccola antenna alta tre metri, con un equipaggio di cinque  rematori su quattro remi, un  “antennista” e un lanciatore che si posizionava a poppa (così era chiamata, in gergo, la prua ) col compito di infilzare la preda. La barca, costruita in legno molto leggero, sotto la spinta dei vogatori diventava velocissima ma capitava, come anche oggi, che il pesce si inabissasse o si sbagliasse il tiro. L’equipaggio del “Luntro” era scelto accuratamente tra vogatori capaci, che nella maggior parte dei casi erano addestrati sin dalla nascita.

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Il pagamento dell’equipaggio non era determinato in quota fissa, ma, per antica usanza, era calcolato in proporzione al pescato, in modo da avere stimoli maggiori. Il sistema, basato su una Feluca e due Luntri, era articolato in venti parti cosi suddivise:

due parti al padrone della Feluca; una alla barca del lanciatore; una e mezza al lanciatore; una alla vedetta del Luntro; tre alle due vedette della Feluca; sei per i cinque rematori del Luntro; quattro per i quattro rematori della seconda  barca; una al proprietario dei ferri e mezza alla Chiesa. Oggi il sistema di pagamento è quasi uguale, ma adeguato al nuovo sistema di pesca che si pratica con feluche munite di passerelle lunghe 20 metri, un traliccio di 30 metri in sostituzione del palo di legno e potentissimi motori, mentre il “Luntro” è stato definitivamente abbandonato.

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Nel periodo estivo sono collocate nel Lago Grande, dai pescatori di Ganzirri, una “Feluca” ed un “Luntro” a testimonianza del nostro glorioso passato marinaro; barche che poi sono utilizzate per trasportare la statua di San Nicola, il giorno della sua festa, all’interno del Lago Grande, attorniato da lumi posti nelle acque e da tutte le barche dei pescatori del luogo.   

I Giganti Mata e Grifone

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Dopo la creazione del Regno di Sicilia, tra Messina e Palermo si stabilì un’aspra rivalità per la contesa del titolo di capitale dell’isola, rivalità che proseguì fino all’arrivo degli spagnoli, nel‘500, che riaccesero la polemica. A sostegno delle loro ragioni, le due città esibivano titoli e prerogative d’eguale misura, e, alla fine, si decise di vagliare anche i titoli storici di fondazione. Avendo Palermo qualche prerogativa in più rispetto a Messina, i messinesi si appellarono al mito del Gigante Zanclo, primo re dei Siculi, ma anche questo non servì alla causa della città peloritana.

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Le versioni sulla nascita dei “Giganti” Mata e Grifone, mitici progenitori di Messina, sono due, una leggendaria radicata nella tradizione e un’altra storica, che venne proposta da Domenico Puzzolo Sigillo. La leggenda vuole che, verso il 965, un gigantesco moro di nome Hassam-Ibn.

Hammar sbarcasse alla testa di numerosi pirati nelle vicinanze della città, iniziando a depredarla. Durante le sue scorrerie, vide a Camaro la bella Marta (dialettalmente “Mata”) che era figlia di un non meglio identificato Cosimo II di Castellaccio e se ne innamorò perdutamente. I due erano però divisi dalla diversa religione, e, ottenuto un secco diniego dai genitori alla sua richiesta di matrimonio, Hassam decise di rapirla. Inutilmente cercò in tutti i modi di essere ricambiato del suo amore: Mata cedette soltanto quando il saraceno ricevette il battesimo e cambiò il nome in Grifone. Abbandonata la spada, si dedicò esclusivamente all’agricoltura, sposò la bella cammarota e fondò, con lei, la città di Messina.

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Secondo la versione storica, invece, i Giganti sono figure allegoriche che ricodano un importante episodio avvenuto a Messina al tempo di Riccardo I duca di Normandia e re d’Inghilterra, meglio noto col soprannome di “Cuor di Leone”. Il sovrano si trovava nella nostra città, in occasione della Terza Crociata, dal settembre 1190 all’aprile 1191, in un periodo in cui i greci erano potentissimi e angariavano i messinesi (latini). Malvisti da Riccardo, furono da esso osteggiati e durante il suo soggiorno messinese egli riuscì a fiaccarne l’orgoglio facendo ampliare ed ulteriormente fortificare sulle alture della città  un’imponente e antica fortezza, dominatrice e intimidatorie dei greci: non a caso il castello ebbe il nome di “Matagriffone” (oggi Tempio-Sacrario di “Cristo Re”).

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L’allusione del nome è evidentissima derivando, “Mata”, dal latino “mateare” (ammazzare) mentre “Grifoni” erano detti, nel Medio Evo e specialmente a Messina, i greci. Se esaminiamo con attenzione le teste dei Giganti si possono cogliere – osserva il Puzzolo Sigillo - in quella di Mata le espressioni di dominatrice e trionfatrice, simboleggiate dal serto di alloro fra i capelli e la “messinesità” sottolineata dal castello a tre torri (Matagriffone, Castellaccio e Gonzaga).

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La testa di Grifone, invece, dai capelli incolti, la folta barba, lo sguardo truce e l’aspetto arcigno e selvaggio, la pelle scura, è quella di un greco vinto che è portato da Mata trionfatrice in stato di servitù e che il capo scoperto e i lunghi orecchini pendenti confermano. I Giganti, oltre che coi nomi di Mata e Grifone, sono identificati con altri personaggi e ciò si inquadra in quell’ottica municipalistica di conferire antica nobiltà alla città, soprattutto nel secolo XVI: Zanclo e Rea; Saturno e Cibele; Cam e Rea. In quest’ultima versione, l’unione di Cam (figlio di Noè e i cui discendenti popolarono l’Africa) e Rea (la “magna mater” greca) porterebbe, addirittura, al toponimo di Camaro (“i Cammari” nella forma dialettale).

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Non si conosce la data della prima costruzione dei due Giganti, ma dalle fonti scritte e dai documenti, si apprende che lo scultore fiorentino Martino Montanini realizzò nel 1560 la statua di Grifone, con la testa e le braccia mobili. Nel 1581, secondo Gaetano La Corte Cailler, gli arti e la testa vennero fissati, sul disegno precedente, dal carrarese Andrea Calamech.
Sull’antichità della Statua di Grifone, testimonia il La Corte Cailler che nel corso dei restauri del 1926: “…sul petto del Gigante si sono notati tre medaglioni, che prima nessuno aveva osservato, uno dei quali risale certamente al XIII secolo mentre gli altri due sono dei secoli susseguenti”. La Gigantessa Mata, invece, venne completamente rifatta dopo il terremoto del 1783 (la testa era stata modellata dallo scultore Santi Siracusa nel 1709) ed entrambi i Colossi, nel 1723, assunsero l’attuale posizione equestre.

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Ulteriormente danneggiati dal sisma del 1908, furono restaurati nel 1926, e, ancora danneggiati dai bombardamenti della Seconda guerra mondiale, nel 1951 furono sottoposti a rifacimenti da parte del prof. Michele Amoroso con la consulenza storica di Domenico Puzzolo Sigillo. La testa di Mata, già rifatta in gesso dal prof. Amoroso, nel 1958 venne sostituita dall’attuale scolpita dal giarrese Mariano Grasso e dipinta dallo stesso prof. Amoroso. La testa di Grifone, invece, è quella originale cinquecentesca del Calamech.      

In quattrocento anni di vita, difficilmente i due Giganti hanno saltato l’annuale appuntamento con i messinesi, che con gioia aspettano quei giorni per far vedere ai loro bambini l’imponenza delle due figure equestri. 

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Il 10 agosto vengono prelevati dal deposito in via Catania, dove sono custoditi tutto l’anno, e trasportati nel vicino villaggio Camaro, ritenuto luogo di nascita di Mata. Il 13 agosto, tra due ali di folla, sono trainati in passeggiata nella zona sud di Messina, e a sera, sistemati in piazza Unione Europea dove centinaia di bambini  fanno loro da contorno, facendosi fotografare dai genitori ai piedi di Mata o di Grifone. L’indomani, la passeggiata continua nella zona nord, per poi ritornare in piazza Unione Europea dove rimangono fino al 31 agosto, giornalmente ammirati anche dalle migliaia di turisti che sbarcano dalle navi da crociera. Fino agli anni Sessanta i Giganti erano trainati da una folta schiera di tiratori, vestiti con un abito bianco, cappello rosso con nappa pendente (“meusa”) e sciarpa dello stesso colore ai fianchi. Il corteo era preceduto da quattro tamburi e zampogne,   affiancati da un “cammellaccio” animato da due uomini al suo interno e guidato da un cammelliere (a ricordo dell’ingresso trionfale nel 1061, a Messina, del Gran Conte Ruggero il normanno).

Il primo settembre, le colossali statue equestri sono riportate nel deposito comunale di via Catania, dove restano tristemente abbandonate  fino al 10 agosto dell’anno successivo.

 

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E’ da tanto tempo che si cerca di realizzare un Museo delle “Machine Festive” dove tenere esposte, permanentemente, la Vara e i Giganti, ma, fino ad oggi, purtroppo ogni tentativo è risultato vano.
Le “Machine Festive” del Ferragosto messinese sono state descritte e riportate su antiche stampe da personaggi illustri, come Giuseppe La Farina nel 1841; dal gesuita Placido Samperi nel 1644; dall’architetto e pittore Jean Laurent Houel nel 1776, che, nella sua opera ” Viaggio pittoresco nell’Isola di Sicilia” stampata a Parigi nel 1784, descrive la festa della Vara paragonandola a quella palermitana di Santa Rosalia.
Chi ama Messina si augura che al più presto queste” Machine Festive” possano trovare una giusta collocazione, degna della loro antica tradizione. 

I Palii di barche

 

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I “palii marinari” erano, un tempo, gli unici momenti di svago e di divertimento lungo i Villaggi della Riviera. Così, insieme alle feste religiose, si organizzavano gare di barche tra le Contrade marinare che, durante queste manifestazioni, mettevano allo scoperto le rivalità esistenti tra i diversi Villaggi.

Tutte le gare si effettuavano con le usuali barche da pesca che differivano tra loro a seconda dell’appartenenza rivierasca. Oggi, riprendendo l’antica usanza, si sono riproposti i palii con le stesse tradizioni e rivalità di sempre.

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Un tempo era uso conquistarsi il posto di gara con il lancio dell’arpione sulla spiaggia prima della partenza, nel corso del quale si dimostravano le capacità dei lanciatori che, quasi sempre, erano i “lanzaturi “ delle feluche della caccia al Pesce Spada: con un lancio preciso si guadagnava il posto migliore in maniera da sfruttare al meglio le correnti del momento.

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Uno di questi palii è quello della “Madonna di Grotta” che si effettua, ancora oggi, il giorno della festa della Madonna delle Grazie, a settembre. Il percorso di gara va da Fiumara Guardia alla Chiesa di Grotta con la differenza che, mentre una volta le gare erano distinte per barche a vela, barche a remi a quattro, sei, otto rematori con timoniere, oggi la competizione è una sola, a sei rematori con timoniere.

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La protagonista dei palii era e sarà sempre la barca “Paciota“, nata per la velocità e che per questo non monta la carena ma solo la chiglia, meglio detta “‘u primu“. Ad essa si contrappongono le barche del “Ringo”, di “Paradiso”, di “S.Agata” , “Ganzirri” e “Torre Faro”. Un tempo, i più agguerriti erano i “Ganzirroti“, proprio perchè abituati alla voga sul velocissimo “Luntro” ma oggi, andato in disuso questo tipo di pesca, gli avversari più accaniti sono quelli di “Paradiso e Pace”.

Il più antico, il più lungo ed impegnativo è il “Palio di Mezzagosto“ che si effettua, prima della processione della Vara, nel tratto della riviera Nord fra la Chiesa di Grotta e la stele della Madonnina del porto, con la classica  “paciota“ ad otto remi in un percorso di sei chilometri e con equipaggi delle Contrade “Paradiso”, “Pace”, “S. Agata”, “Ganzirri” e “Torre Faro”.

Il Presepe vivente a Castanea delle Furie

 

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Castanea delle Furie è uno dei Casali più grossi ed importanti di Messina e conserva, ancora oggi, testimonianze di edifici ed opere d’arte dal tardo Medio Evo al primo Novecento.

Si affaccia sul Tirreno ed è isolato per la presenza di rilievi montuosi, ma, si collega facilmente a Messina con la valle del Torrente Giostra, e, dal versante Tirrenico, coi Torrenti Rodia e Giudeo.

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A Castanea esistevano 24 chiese e 32 fra conventi e monasteri, in gran parte distrutte dal terremoto del 1908. Recuperato dopo il sisma, il prezioso vasellame del ‘500 e del ‘600 della famosa farmacia Lentini è oggi custodito al Museo Regionale di Messina. Malgrado ciò, i giovani di questo centro montano hanno avuto la capacità di portare il loro Casale all’attenzione generale, creando turismo e cultura a Castanea.

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E’ con questo obiettivo che nel 1989  si tenne la prima edizione di un Presepe vivente con il  coinvolgimento di anziani, artigiani, giovani e bambini del luogo.

Nella pregevole Villa ontarelli col parco annesso, messa a disposizione dai fratelli Arrigo, fu approntata la prima edizione con sei aree: artigianale, regale, pastorale, bazar, Tempio e Natività. All’interno di queste aree si svolgono ben 33 rappresentazioni: fabbri, vasai, scultori del legno, pastai, mosaicisti, ricamatrici, mulino e forno, censori, mastri d’ascia, cestai, artigiani del cuoio, intrecciatori di rafia, reggia dei romani, orafo, intreccio di fiori, erboristeria, pittrice, reggia di Erode, sommi sacerdoti,  maga, diavolo, bazar, capanna del pozzo, capanna a longarino, pagliaio, Re Magi, forno, capanna piccola, capanna centrale, forno pastorale, grotta della Natività.

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In questi capanni operano attivamente, nelle loro arti e mestieri, tutti i personaggi del Presepe che al momento è, per qualità e rappresentazione storica filologicamente corretta, uno dei migliori in Sicilia. Girando per i capanni si può assaggiare il pane fresco, la bruschetta, il siero e la ricotta prodotta sul posto; si assiste alla macinatura del grano e alla produzione della pasta fresca, all’intreccio di ceste e panieri, alla lavorazione del cuoio, alla forgiatura dei ferri di cavallo. 

Il Presepe è realizzato, rappresentato e gestito dagli abitanti di Castanea guidati dall’Associazione Culturale “Giovanna D’Arco” che cura tutti gli aspetti organizzativi e di aggregazione della manifestazione, oltre  un concorso fotografico.