Divagazioni di mezza estate

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 La granita messinese merita, ad onor del vero un discorso circostanziato.  Infatti  quella fatta al gusto di caffè è successiva, a mia memoria - adesso salterà fuori  qualcuno che con dati alla mano mi contraddirà - alla cosiddetta  granita al limone, considerata  dagli esegeti della materia come la protogranita. Questa di solito  veniva accompagnata dalla “ zuccarata”, una ciambella, che contrariamente al nome,  non aveva  molto zucchero, anzi niente;  dalla consistenza  friabile del biscotto, cosparsa di “ciciulena” (semi di sesamo la cui origine è indiana. In quei paesi il sesamo è simbolo d’immortalità).

 L’accoppiata fra la granita limone e la zuccarata doveva esser fatta con la giusta gradualità. Bisognava infatti  aspettare che il pezzo di ciambella  immerso nel freddo liquido acidulo-zuccherino si ammorbidisse al punto giusto. Né prima né dopo. Dunque la degustazione della granita diventava per la lentezza che lo caratterizzava anche momento di meditazione propiziata dai sapori della nostra terra e dall’eco della nostra storia, tutto in fusione nella pacata atmosfera mattutina che precedeva l’inizio della giornata. Ancor meglio risultava collante di una conversazione fatta seduti comodamente con degli amici  ai tavolini,  sotto le frescure alberate di piazza Cairoli. Una delle poche cose che fortunatamente non abbiamo importato d’oltreoceano è proprio la  prima colazione. Ma è proprio  vero che non ci vediamo,  di prima mattina, davanti a un piatto di uova fritte con bacon, litri di caffè slavato e burro d’arachide che chissà com’è.

 

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 Oggi  c’è la granita caffè con panna, e brioche beninteso col tuppo. Viene consumata - quando la prima colazione non viene fatta in casa o quando  d’inverno  il cappuccino o il caffè espresso,  accompagnati dal cornetto, sono dei validi concorrenti - rapidamente, appoggiati al bancone del bar, con l’assillo di dover correre al lavoro. L’ansia ha preso il posto della serena meditazione:  “ una mezza con panna “ e via…  Sulla cosiddetta parola “mezza” usata dai messinesi  con duplice significato c’è da fare tutto un discorso : menza birra, menza cugnetta, nu quartu i vinu e menza gazzusa, mmenz’a ‘na strata…

“ Italo non divagare e torna alla granita.” “ Scusatemi.

 E pensare che al primo apparire di questo nuovo gusto di granita, fra noi ragazzi circolava la voce che  venisse fatta sfruttando i fondi di caffè delle macchinette da cui usciva l’espresso nei bar. Si diceva che questi  rimasugli venissero ribolliti  facendo la cosiddetta “cafeata” ,e che a questa venivano aggiunte alcune tazzine di caffè espresso concentrato giusto per non perdere completamente la faccia; e che da questo intruglio usciva fuori quella bontà che nel tempo nei bar soppiantò la granita la limone: beninteso con l’aggiunta di panna che doveva essere freschissima.  Panna acida era sinonimo a Messina di fuga di tutta la clientela. Ma forse  chissà questa della cafeata è una leggenda metropolitana.

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 Eppure l’andarsi a rinfrescare la gola  ha una tradizione  che risale agli arabi. Essi infatti introdussero in Sicilia fra le altre cose l’uso del sorbetto  (sherbet) che veniva ottenuto  utilizzando la neve,  che abili montanari avevano conservato  durante l’inverno  in apposite buche delle montagne siciliane,  o nelle capaci caverne  dell’Etna. Fra l’altro gli arabi avevano introdotto in Sicilia la coltivazione della canna da zucchero, che nella confezione dei vari dolciumi sostituì il miele, inoltre c’è da dire che il gusto agrodolce  usato nella caponatina  e nel coniglio è di derivazione araba. Gli onnipresenti arabi!

 Ci voleva però la genialità di un siciliano, forse oppresso dalla calura, che è immancabile nella nostra bella isola ad accoppiare la neve, per la cronaca era quella dell’Etna, con il sale sfruttando  la miscela endotermica che ne deriva, sembra  sempre di derivazione araba.  Costruì una macchinetta  che i posteri chiameranno  gelatiera  che riusciva a sfruttare questa reazione tenendo i due liquidi beninteso separati; nacquero cosi le prime granite e i gelati che ebbero una rapida diffusione in Francia portate dal nipote: il siciliano Procopio .

 Grande fu la mia meraviglia quando a trovandomi a Napoli  vidi che preparavano la granita,  grattugiando il ghiaccio “ a rattata “ che poi era d’importazione romana, dove veniva chiamata “grattachecca”,  dove la checca per i romani era anche il parallelepipedo di ghiaccio, in Sicilia inteso come balata. A questa grattata venivano aggiunti degli sciroppi dai colori sgargianti poco rassicuranti. Procopio andando in Francia,  prendendo la nave, non era passato né da Napoli  né da  Roma.

 Ma la vera granita era quella fatta in Sicilia, senza ombra di dubbio; e poi c’era quella che si faceva in famiglia.  A quei tempi i frigoriferi  con i freezer, per averli visti in qualche film d’importazione, ce li sognavamo, e l’unico refrigerio  estivo ci giungeva dall’acquisto del ghiaccio, che ricordo era di una limpidezza cristallina. A Messina una fabbrica del ghiaccio si trovava in via XXIV maggio.

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 Un bel giorno, all’inizio dei primi caldi,  mio padre arrivò a casa con una specie di cassetta di legno, di forma cilindrica con tanto di piedini di supporto.

“ Questa è una gelatiera “ , annunziò tutto trionfante. E poi la successiva descrizione a tutta la famiglia messa lì davanti in estatica contemplazione. Nella scatola di legno trovavano collocazione due cilindri chiusi inferiormente, di lamiera zincata piazzati coassialmete, se mi è concesso il termine tecnico. Un certo spazio li divideva. E il cilindro più interno  era mosso da un marchingegno di ruote dentate mosse da una manovella. Tutto fatto artigianalmente , come si usava  nel bel tempo passato.  

 La macchina doveva essere provata senza indugio. Fui  mandato da don Micio che aveva una rivendita di vini e olio vicino casa mia, sull’antica via Malta, e che era il nostro usuale fornitore,  per procurare un paio di chili di ghiaccio, e alla pasticceria Lorino per acquistare le zuccarate; mentre mia madre preparava la miscela di acqua zucchero e limone, mettendoci anche un pò di scorzetta grattugiata per dare il profumo e un pizzichino di sale sennò veniva “ dissapita”.

Poco limone e molto zucchero, sennò veni ‘ rraggiata,” andava  poi sentenziando. Al mio ritorno la miscela era stata già  messa nel contenitore interno. Il ghiaccio veniva  frantumato in pezzetti in modo da poter  essere  inserito con il sale nell’intercapedine, e poi a girare a turno la manovella;  non prima d’aver sentito, mentre sgranocchiavo dei pezzetti di ghiaccio avanzati, l’immancabile  spiegazione scientifica data da mio padre circa la velocità di rotazione quale rapporto fra le ruote dentate,  sulle miscele endotermiche e sul punto eutettico che per l’occasione era di – 23°C.  

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 Quella prima volta, ancora inesperti, avevamo però tralasciato un piccolo, ma importante particolare , cioè di usare una paletta di legno per staccare di tanto in tanto  la miscela  dalle pareti. Il  risultato fu  che invece della granita ci ritrovammo una sorta di neve immangiabile la cui temperatura  era così bassa tanto che se veniva messa sulla lingua la bruciava senza fare tanti complimenti: da cui la dizione che la granita, si era per così dire bruciata, mandando a sfarsi strabenedire  velocità di rotazione, ruote dentate e punto eutettico.

 Fortunatamente anche la neve prima o dopo si scioglie sicchè ci accontentammo di quello che veniva fuori.

 E si, nella granita la fase liquida deve coesistere con quella refrigerata, se no come si faceva  ad ammorbidire la “zuccarata”.

 Forti di quella prima esperienza, muniti di una lignea paletta, da allora in poi a casa mia vennero confezionate granite forse migliori di quelle fatte al bar.

 Poi in Sicilia a seconda del dove ci si trovi si potranno  gustare  vari tipi di granita. Le più famose sono quella alle mandorle nel siracusano, quella al pistacchio a Bronte e via di seguito discorrendo. Ormai la molteplicità dei gusti la si può trovare in qualsiasi parte dell’isola dove l’assetato  viaggiatore sia di passaggio.

 Quella preferita a casa mia era la granita di gelsi rossi - in messinese “ Ghiosa”- doppiamente rinfrescante, esternamente e internamente. I puristi la definirebbero una cremolata, per noi era pur sempre una granita fatta con la polpa dei gelsi, zucchero e un sospiro di succo di limone ;  qualche gelso veniva messo da parte e veniva aggiunto  alla fine, graziosamente, come guarnizione.

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 Quei pomeriggi  assolati d’estate quando  il dormiveglia postprandiale veniva puntualmente interrotto dal richiamo del venditore che “banniava” : “Ghiosa.. haiu ghiosa.. haiu ghiosa nira megghiu di frauli .“ ( Gelsi.. ho gelsi neri ,meglio delle fragole).  Ed aveva ragione. Ed io ad uscire, piatto in mano  a comprare da questo venditore caratteristico, carico di panareddi la impareggiabile ghiosa, che a raccoglierla, si diceva, fosse necessaria  una speciale vestizione  in quanto il rosso del suo succo era indelebile.

 A quei tempi gli ambulanti  che girovagavano per le strade della città non portavano la bilancia per cui la ghiosa era misurata a panareddi, e così  molte altre cose: ad esempio  le costardelle  che deliziavano,  fritte accompagnate dalle cipolle rosse di Tropea intinte nell’aceto,  le nostre cene,  erano vendute avvolte nella carta paglia a rotolo. Un rotolo, si poteva stimare  in circa ottocento grammi e poi c’era ‘u quattaruni:  250 grammi e per concludere la divagazione: ‘n quatt’i vinu e na gazzusa.

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 Tornando alla ghiosa c’è da dire  che prima di uscire mi ero munito di uno stuzzicadenti , sicchè il primo assaggio di questi deliziosi frutti lo facevo io immerso nell’ombra complice del portone di casa mia, senza che i polpastrelli delle mie mani si tingessero di rosso,denunciando il maltolto all’intera famiglia.

 E poi  la solita andata pomeridiana da don Micio, per comprare il ghiaccio  e la solita procedura per la preparazione della granita, che veniva degustata a pomeriggio inoltrato; tutti seduti nel giardinetto di casa mia,  al primo soffiar del venticello serale..

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 E si, a quei tempi , c’era il ghiaccio cristallino di don Micio, le zuccarate di Lorino, l’allegro roteare della gelatiera e nel giardinetto  verdeggiante di glicine di casa mia, noi tutti seduti a degustare la granita. A quei tempi c’era l’anticiclone delle Azzorre a contribuire alla frescura del momento e non la bolla africana che ai giorni nostri ci tortura per quasi tutta l’estate.

 Quelli , veramente, erano bei tempi!

Italo Rappazzo