L'acquedotto di Camaro

di Andrea Bambaci

Alla fine del Quattrocento, come nei secoli passati, la città di Messina “piena di lezzo e di sudiciume”, con un asfittico entroterra agricolo, si sosteneva grazie alla sua centralità nel Mediterraneo, con un vivace import-export portuale esercitato in prevalenza da clan forestieri.

La frequentazione di marinerie straniere aggravava la già difficile situazione igienico-sanitaria della città, priva di elementari forme di acquedotti e fognature.   

In quei secoli i Monti Peloritani che la circondano, ricchi di boschi, costituivano dei discreti bacini idrogeologici. Nell’ambito urbano era utilizzata l’acqua delle falde freatiche con dei pozzi e dalle sorgenti naturali (Pozzo Leone). L’inquinamento ambientale urbano era causato per lo smaltimento delle acque luride oltre che nei tradizionali “pozzi neri a dispersione”, per le strade, vicoli e fiumare in canali a cielo aperto; ancora nell’Ottocento si usavano sconnessi canali interrati il cui sbocco nelle acque del porto spesso, d’estate, doveva essere chiuso per il fetore che ammorbava l’aria di vaste aree.

All’alterazione ambientale contribuiva il percolato degli immondezzai e delle stalle. Più tardi, la diffusione dei pozzi, peggiorò la situazione. Subì la stessa sorte anche l’acqua dei futuri acquedotti con condotti di terracotta non smaltata (catusi) talmente scadenti, che in breve tempo si logoravano consentendo la contaminazione dell’acqua.

Nella prima metà del secolo XVI, si verificò una svolta storica per i messinesi “i quali prima erano molto poveri d’acqua dolce, e solo si servivano di quella dè pozzi o di piccole fontane, al mio tempo hanno tirato per via di canali e condotti sotterranei, insin da Cammari l’acqua nella città”.

Infatti il Senato messinese, sulla scorta di nuove conoscenze sull’argomento, avviò, come ha scritto l’architetto G. Fiore nel 1859: Le opere sul tal genere in cui viene adorno il nostro paese sono moderne, ed incominciano dal 1530, in cui fu intrapreso dall’Ingegnere Camiola il traforo dei monti, per allacciare le acque delle sorgive Camaro, Bordonaro, e Cumia”. […] le Pescine di deposito e di distribuzione, delle quali due si veggono con ammirazione presso S. Gregorio e l’altra in S. Paolo; come per fonte d’abbellimento del paese e su d’ognuno il Nettuno e l’Orione”.  

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Al Mastro delle Acque, Francesco La Camiola, detto Cico o Cecco, da Taormina, potrebbe attribuirsi anche la costruzione degli acquedotti Scoppo e Trapani, e “una magnifica cisterna (col fabbricarsi il Grande Ospedale) tale da scendervi comodamente per mezzo di una scala rampante –Fiore, specifica nella nota n. 2 che – […] essa cisterna per cura degli attuali zelantissimi  Amministratori venne ristaurata, ed è bella con doppia bocca al pari di quella nel cortile del Palazzo Ducale in Venezia”.    

Prima del completamento della complessa opera d’ingegneria idraulica, il 15 maggio 1547, il Senato istituì una commissione, di cui alcuni elementi furono delegati a contattare “valenti” artisti per la costruzione in piazza Duomo di una fontana monumentale a futura memoria “dell’ingresso delle acque del Camaro” nella città. Intanto nel giugno dello stesso anno, nel giorno dedicato alla festività del Corpus Domini, in piazza Duomo alla presenza di autorità e popolo, fu fatta uscire da una provvisoria fontana l’acqua del Camaro.

Dopo alcune lungaggini, la Deputazione decise di affidare l’incarico al valente  scultore Giovanni d’Angelo Montorsoli, allievo di Michelangelo. Probabile che tale decisione sia stata condizionata anche dalla presenza dell’artista in città: si riducevano, oltretutto, raggiunto l’accordo, le spese e i tempi di esecuzione dell’opera.

Montorsoli accettò l’incarico e, ottenuti i necessari materiali, “con molta prestezza” scolpì i vari pezzi che rimasero in deposito alcuni anni in attesa di demolire la piccola chiesa di San Lorenzo che sorgeva in piazza Duomo sull’area prescelta per la costruzione della fontana monumentale.  

Spianata l’area, il Senato pubblicò il 4 agosto 1552 il “Bando invitatorio per chi volesse offerire allo staglio della fabbrica del pedamento del fonte nel piano della Matrice Chiesa secondo il modello di Giovanni d’Angelo Motorsoli (sic) capo maestro della Città da farsi con il denaro era d’imborsarsi sopra la gabella del danaro del pane assegnato alla fabrica dell’acqua”.

La fontana fu montata e ultimata nel 1553, come testimonia la lapide murata nella sottostante galleria ad anello.

Sin dal completamento della monumentale fontana, l’assiduo attingimento dei popolani della salubre acqua e l’uso di abbeverare gli animali, causarono dei danni e per evitarne di maggiori, la Deputazione delle acque propose al Senato di recintare il monumento con una ringhiera di ferro. Con la relazione datata 20 luglio 1611, il Senato chiese e ottenne dal viceré “il permesso di fare la spesa per girare di ferri il fonte esistente nel piano della Matrice Chiesa costrutto con ammirabile manufattura da mastro Giovanni d’Angelo scultore celeberrimo”.

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Dell’inferriata si fece anche un uso improprio: vi legavano sia i quadrupedi sia i condannati alla berlina: infatti il Bando vicereale del 19 maggio 1702, proibiva a chiunque di usare espressioni che ricordassero la rivolta antispagnola, considerate offensive, pena il carcere o la galera (incatenati al remo), mentre per i figli dei rei toccavano “cinquanta bastonate legati alli ferri della fontana della Matrichiesa.

Per sopperire alla conseguente restrizione dell’uso della fontana, il 6 luglio 1629 la Deputazione delle acque chiese il permesso per “farsi un catusato di brunzo  (tubolatura o canale murato) al fonte nel piano della Matrice Chiesa // e farsi diversi acconci per l’acquidotti della medesima con spendere onze 600 circa”.

Probabilmente furono installate delle fontanelle all’esterno dell’inferriata collegate al  tubo di bronzo. Nel corso del tempo l’originaria recinzione rotta e cadente sarà stata asportata, se nel 1859 si auspicava di “custodirsi (la fontana) con una leggiera inferriata con bei fanali negli angoli elargata fino al ciglio della piatta-forma, onde impedire l’avvicinamento al fonte”.   

lapide.jpgLa lapide ritrovata 

Oltre venti anni fa, ho avuto modo di vedere e fotografare una piccola lapide  recuperata nella galleria dell’acquedotto Camaro, interrotta casualmente durante i lavori di scavo per la costruzione delle fondamenta di un complesso edilizio nel villaggio Bisconte tra la via Nocera e la via Noto. Questa epigrafe (non conosco che fine abbia fatto) lascia sperare che nelle gallerie superstiti del coevo acquedotto Trapani se ne possa trovare una simile.

Già all’inizio del Novecento lo storico G. Arenaprimo descrisse una simile epigrafe 

che c’era  <<sulla spalla sinistra della galleria Arcipeschieri>>. Questo nome storicamente identifica la contrada a Ovest, fuori le mura medievali, tra Torre Vittoria  e il torrente Portalegni, distante dal villaggio Bisconte. L’epigrafe trascritta da Arenaprimo è breve e dello stesso tenore di quella ritrovata anni fa (vedi foto).  Ritengo, data la statura dello storico, si tratti di una seconda lapide dell’acquedotto Camaro.   

Il luogo e l’orientamento delle due gallerie, con l’aiuto di pochi riferimenti storici, mi consentono, di ipotizzare il percorso dell’acquedotto da Bisconte a piazza Duomo.

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Da Bisconte la galleria, proveniente da Ovest, prosegue in direzione Nord per Gravitelli, da qui, lungo il torrente Portalegni, attraversando la contrada Arcipeschieri  e la porta dei Gentili, dalla contrada Gentilmeni arriva alle Pescine (serbatoi) di deposito e distribuzione S. Gregorio e S. Paolo, costruite rispettivamente nel versante Est dei colli della Capperrina e Rocca Guelfonia. Dai serbatoi l’acqua veniva distribuita alle varie fontanelle  e fonti ornamentali, quali la fontana Orione e la fontana Nettuno.

I serbatoi San Gregorio e San Paolo

In via Dina e Clarenza, a un centinaio di metri da piazza Falconieri, c’è il serbatoio San Gregorio e modesti fabbricati di pertinenza: dalla strada si intravedono gli stipiti di un finestrone di diversa e antica fattura, in passato poteva essere l’ingresso del serbatoio ricavato nel colle Caperrina. La continuità dell’utilizzo del serbatoio, è attestato nella relazione delle perizie del 8 luglio 1944 e 20 maggio 1946, della Direzione Civico Acquedotto “per la riparazione (per danni bellici) del serbatoio S. Gregorio e delle tubolature delle acque vecchie”, perché il serbatoio “e la rete secondaria, cui esso fa capo, ha una grandissima importanza, oltre che per la rete antincendi anche per i servizi ausiliari […] e per tutti quegli altri servizi, dove non è richiesta acqua potabile”.

Prima dell’entrata in esercizio dell’acquedotto della Santissima e del relativo serbatoio di Torre Vittoria, l’acqua del Camaro doveva risultare inquinata, ma per il suo discreto quantitativo fu utilizzata fino a pochi decenni addietro. Oggi il serbatoio e l’area di pertinenza sono stati messi in vendita dal Comune di Messina.

Dei resti del serbatoio San Paolo indicato sul versante Est di Rocca Guelfonia, attualmente non v’è traccia. 

D’estate vi era un naturale calo della quantità di acqua dalle sorgive pedemontane, già impoverite dalla deforestazione dei Peloritani. Il fabbisogno, specialmente a scopi irrigui, costringeva fraudolentemente gli operatori agricoli a prelevare l’acqua dai condotti comunali o a scavare botteschi anche in prossimità delle sorgive di alimentazione degli acquedotti pubblici. Inoltre, nella gestione delle pubbliche acque erano frequenti i casi di malaffare, gestiti da proprietari terrieri forti di “provvidi” incarichi istituzionali, e da corrotti fontanieri. Frequenti anche episodi di mirato vandalismo e manomissioni. Pertanto si continuava, con difficoltà, a fare uso dell’acqua dei vecchi e profondi pozzi. Da qui la necessità di scavare altri pozzi.   

In quei secoli, l’interesse di “avere l’acqua” prevalse sulla necessità di dotare la città di adeguate fognature pubbliche, la cui mancanza, fu causa  di gravi malattie sociali.

Nell’Ottocento, sull’argomento si accesero dispute culturali e si attuarono metodi e studi empirici; con il progredire delle scienze, prevalse  il convincimento generale che l’acqua delle falde e pozzi era irrimediabilmente inquinata e conseguentemente, dannosa alla salute.  

Nel 1887, verificatasi l’ultima epidemia di colera, i pozzi furono definitivamente chiusi. L’anno dopo iniziarono i lavori di sostituzione dei tubi dei vecchi acquedotti con tubi di ghisa.

All’ing. Giuseppe Carollo fu affidato lo studio di un sistema di fognatura razionale secondo i dettami d’igiene dell’epoca. Dopo il 1908 con il nuovo piano regolatore della città iniziò la costruzione della complessa opera.

Per Messina iniziava un’altra svolta storica: gli amministratori “rivolsero la loro attenzione” alle ricche sorgenti esistenti fuori dall’ambito comunale (Ferraro, Fiumedinisi, le sorgive dell’Ovest –tra la galleria Peloritana e il Niceto-, le Bocche D’acqua dell’alto Niceto): fu il primo passo per la progettazione nel 1895 e, “dopo inaudite battaglie con gli oppositori”, la realizzazione dell’acquedotto della “Santissima”.