Abruzzo 2009 chiama Messina 1908

Impressioni di un tecnico rilevatore

(di Dino Vadalà)

E’ il pomeriggio di un giorno che a me già sembra abbastanza cupo. Con la colonna dei volontari della Protezione Civile giungo al campo di Colombaia di Tornimparte. Che nome strano lo ripeto più volte sbagliandolo regolarmente e suscitando l’ilarità dei miei compagni di viaggio. Sarà un lapsus Freudiano di chi non vuole accettare qualcosa?  Ho preso la decisione di andare in Abruzzo da volontario per fornire la mia prestazione di tecnico rilevatore per il censimento dei danni sui fabbricati colpiti dal sisma, ma adesso che sono qui solo un pensiero è capace di elaborare la mia mente: sarò capace di affrontare i disagi del campo?

 Dentro di me inconsciamente s’insinua il sospetto di aver preso una decisione avventata, indegna della mia razionalità. Prima di partire ero sicuro che sarei stato sistemato in una casa di cemento, o forse di muratura, ma comunque sotto un tetto già collaudato dal sisma. L’idea di dormire in tenda infatti non mi piace. Lo spazio che nel mio cuore ho lasciato alla spirito d’avventura è sempre stato limitato, e poi, in questo momento mi sembrerebbe ancor più fuori luogo parlare d’avventura.

 Davanti all’ingresso del campo c’è molto movimento: un andare e venire di gente in divisa da volontari  della protezione civile carichi di roba da sistemare nei bagagliai dei mezzi già pronti per la partenza.

 La missione che ci ha preceduti sta per partire, lascia il posto a noi. Baci, abbracci, scambi di numeri di telefono, perfino qualche lagrima; e soprattutto continui lampeggiare di flash per foto ricordo da rivedere, mi domando: chissà quando.

 E’ l’atmosfera gioiosa e nello stesso tempo nostalgica di un commiato che in questo momento non riesco a comprendere anzi che addirittura mi infastidisce.

 Penso che mai potrei provare una simile sensazione.

            Dai frammenti di discorsi che colgo qua e là  dalla gente che popola il campo mi sembra di capire che sotto un tetto, in questo momento, non ci vuole stare nessuno. Con grande preoccupazione per ciò cui vado incontro mi rendo conto che non si può aggiungere il proprio disagio a quello di tante altre persone.

Alla “reception” di questo particolare albergo, in cui le stanze sono tende contrassegnate da un numero, mi convinco che per tutti stare in tenda è certamente più sicuro, e che solo un “signorino” come me può pensare di stare in albergo.

Mi procuro, con l’arte d’arrangiarsi che ci è più congeniale, una parure di lenzuola; di cuscino e federa non se ne parla nemmeno. Come farò a dormire senza il mio speciale cuscino in lattice che lenisce la cervicale?

Con questo trofeo sulle braccia m’incammino verso la 101. Il mio compagno di viaggio trova di buon auspicio questo numero: gli ricorda un film d’avventura con John Wayne; mi strappa un sorriso giusto per non deluderlo e per non manifestargli  tutto il disagio che in questo momento si agita in me.

  

Dalla tenda dell’organizzazione logistica alla 101 c’è solo la larghezza di un campo di calcio. Il mio cuore è stretto come non mi capitava da tanto tempo, per un attimo avverto lo strana sensazione di sentirmi un detenuto che va alla sua cella.

Sono attimi in cui l’idea di fuggire, anche se assurda, passa per la testa.

A pochi passi da me scorgo una vecchia vestita di nero che scarica sul suo bastone oltre al  peso del suo corpo, ansia, paura e disagi di una vita che non pensava le avrebbe riservato tutto ciò proprio adesso che avrebbe potuto trascorrere serenamente e sotto un tetto sicuro quanto di vita le ha riservato il suo destino.

 Il mio pensiero va subito a mia madre, E se fosse lei a trovarsi in quel momento là?

E nello stesso tempo, in quell’atmosfera di vita che riparte, dopo un sconvolgimento così terribile e nefasto, mi tornano alla mente i racconti sul terremoto, sentiti dalla viva voce di una scampata: mia nonna.

 Quell’alba del ventotto dicembre la sua famiglia: genitori e cinque figli, stava intorno a un letto per assistere la figlia maggiore colta da un malore che sembrava piuttosto grave. Fu questa veglia imprevista che salvò tutta la famiglia. Incassata la prima scossa, restando tutti indenni, riuscirono a fuggire grazie all’aiuto del figlio più grande – già abile guardia marina – che, capace di orientarsi fra le macerie, che scossa dopo scossa si andavano a formare, riuscì a guidarli lungo un percorso a monte della distrutta città dove per una più rada edificazione c’erano minori possibilità di crolli.

E fu così, incredibile a credersi, che quell’intera famiglia scampò a un disastro così immane.

Nel campo, alcuni bambini, intenti come sono nel loro gioco d’acchiapparsi, mi girano intorno senza neanche accorgersene, quasi mi buttano a terra e mi riportano alla realtà di oggi. Mi infastidiscono. Ma già meno perché mi sento un po’ diverso.

Il ritorno con la memoria ai racconti della nonna mi ha risollevato. Adesso il pensiero vola alle baracche del villaggio Annunziata, di cui lei mi parlava; là avevano ricominciato a vivere. E lei, che era già una maestrina, si prendeva cura dei più piccoli per insegnare a leggere e fare i primi calcoletti d’aritmetica.

In questo riflusso di pensieri che si confondono fra le pieghe della mia memoria mi ritrovo non so come nel refettorio: una tenda grandissima adibita anche a luogo di riunione ed altre attività per la comunità di terremotati e volontari.

Spillati sù delle tavole ai lati, a ridosso di panche e tavoli, osservo i disegni dei bambini dell’elementari che proprio là, fra la colazione e il pranzo hanno ripreso il loro percorso d’apprendimento.

Tanti pensieri sull’accaduto, sul panico di quei momenti; e anche di speranza per ricominciare a vivere.

Mi soffermo anche sulle paginette dedicate  alla geografia di questa terra meravigliosa, e, in questo frangente tanto sfortunata: l’Abruzzo. Riscopro dopo tanti anni che proprio poco distante da noi svetta la cima più alta dell’Appennino il Corno Grande m.2912. Sarà anche questa mitica montagna, con le sue nevi perenni, a dare forza a questa gente?

Questa atmosfera di vita che riparte, col pensiero a quella vissuta dalla mia famiglia, che è radice di cui sono fronda, adesso mi fa sentire più vivo.

Prendo coscienza, più che mai, di come da queste radici sono rinato: per amore, per forza, e soprattutto per gli aiuti dati ai miei nonni da tanta gente che, in tempi molto più duri dei nostri, sfidando qualsiasi disagio e forte solo del coraggio e del desiderio di essere utile al suo prossimo, è giunta in riva allo Stretto per fare rinascere la nostra Messina.

Ripenso all’incredibile storia di mio nonno ritrovato sotto le macerie, all’alba del primo gennaio, proprio quando si stavano per chiudere le ricerche. Estratto dalle macerie dai marinai Russi e imbarcato sul Admiral Makharoff fu condotto  a Genova, dove, pur perdendo una gamba, gli salvarono la vita.

Tutto ciò mi riconforta e sento forte dentro di me la responsabilità di essere io ad dover fare ora la mia piccola parte, come allora la fecero coloro che giunsero a Messina.  

Poco distante, un’altra vecchietta, piccola come una bambina, per braccio alla sua nipote si dirige alla stecca dei bagni chimici, la seguo voglio proprio vedere se entrerà. La nipote, aperta la porta e fattala, entrare sta lì davanti ad aspettarla fin quando esce.

Seguo come la sequenza di un film tutta la scena in cui adesso in quella vecchietta rivedo la mia bisnonna, e nella nipote, mia nonna, che accompagna la madre alla sua tenda.

Avverto come una scossa – mai metafora fu più appropriata – è l’ultima di uno sciame che mi fa abbandonare qualsiasi perplessità e che mi fa abbracciare con convinzione la scelta fatta.

Sono trascorsi gli otto giorni della missione, ho accertato oltre sessanta case, due terzi di esse, tutte in muratura, sono state rese inagibili; ma qualunque responso avessi dato a quella gente, il garbo, l’accoglienza e l’affetto datomi è sempre stato lo stesso da parte di tutti.

Siamo pronti per la foto finale, mi torna in mente com’ero all’arrivo: scettico, preoccupato, insicuro, ma adesso che si è giunti ai ringraziamenti, non vorrei più partire; almeno non prima di aver salutato uno per uno gli abitanti della tendopoli ed avergli detto una sola cosa: Grazie.