Messina e il lucente segreto dei Della Robbia

Un assordante silenzio accoglie il visitatore che si aggiri per le sale del nostro museo regionale, uno dei luoghi in assoluto meno frequentati dai messinesi voluttuosamente dediti (questo sì!) a tutte quelle altre piacevolezze della vita che privilegiano agi, gola e beni di consumo vari. Se, da una parte, questo riprovevole costume testimonia impietosamente l’assoluto disinteresse che il “buddaci” nostrale nutre verso qualsivoglia testimonianza degli antichi fasti peloritani, dall’altra, permette agli sparuti estimatori delle belle arti una più meditata e assorta contemplazione delle opere esposte senza correre il rischio di essere infastiditi da turbe di maleducati visitatori che affollano vocianti altri famosi musei d’arte. Come dire: tutto il male non viene (forse) per nuocere!

E allora, quando il frenetico scorrere della vita me lo permette, m’immergo volentieri in quell’atmosfera rarefatta traendo godimento dai muti dialoghi che di volta in volta instauro con gli autori o i protagonisti di questo o quell’altro capolavoro che, invitanti e seducenti, mi si offrono senza veli nella discreta penombra che avvolge ammiccante i locali d’esposizione. Così, nel corso di una visita alla struttura museale cittadina, mi sono particolarmente soffermato ad ammirare lo stupendo tondo raffigurante la Madonna col Bambino (o Madonna della frutta, per la decorazione del festone che circoscrive l’immagine mariana e del divin Bambino), opera in terracotta smaltata attribuita per una serie d’indizi (tra cui la posizione del bambino tenuto dalla Madonna sul braccio destro invece che sul sinistro) ad Andrea della Robbia, secondo esponente di spicco, in ordine di tempo, della famosa casata di scultori fiorentini che, dal XV a buona parte del XVI secolo, stupì i contemporanei con la prodigiosa attività delle sue fornaci di via Guelfa. La provenienza della robbiana custodita nel museo messinese è certa. Adornava, infatti, la parte muraria superiore della porta d’accesso alla Sacrestia della Chiesa di Santa Maria della Scala (più comunemente nota come la Badiazza).

I sei secoli trascorsi dalla realizzazione del tondo non sembrano avere minimamente intaccato la vividezza dello smalto invetriato, tecnica di lavorazione della terracotta di origine orientale mirabilmente elaborata e perfezionata dal geniale Luca della Robbia (1400?/1482) che, proprio con la sua prima Madonna col Bambino (o di Santa Maria Nuova, 1440 circa) a figure bianche teneramente vivificate dagli occhi cerulei e da un meraviglioso sfondo azzurro, iniziò le fortune (non solo) artistiche della famiglia che furono degnamente perpetuate dai suoi due discendenti più dotati: il nipote Andrea (figlio del fratello Marco) di cui si è già detto; e il pronipote Giovanni, terzogenito figlio di Andrea. Quella Madonna, che ora è conservata a Firenze presso il Museo nazionale del Bargello, rappresentò il modello cui si ispirò una successiva produzione quasi seriale di sculture dello stesso soggetto che trovò rapida diffusione in tante altre regioni del territorio nazionale.

La Sicilia, ad esempio, conserva, oltre che a Messina, altri invetriati sia a Trapani (Chiesa Santa Maria del Gesù, Madonna col Bambino o degli Angeli di Andrea della Robbia) sia a Militello di Catania (Chiesa Maria SS. della Stella, Pala d’Altare di Andrea della Robbia raffigurante la Natività). Intorno al prodigio degli invetriati di fattura robbiana, persiste un alone di fitto mistero che gli studiosi non sono ancora riusciti a fugare del tutto. Già nel 1558 il cavalier Cipriano Piccolpasso cominciò a occuparsene nell’opera “I tre libri dell’arte del vasaio”, il cui sottotitolo così suonava eloquentemente: Nei quai si tratta non solo la pratica/ma brevemente/tutti gli secreti di essa/cosa che persino al di’ d’oggi/è stata sempre tenuta ascosta.

E il primo segreto che svelò fu quello relativo alla composizione dello smalto usato dalla bottega fiorentina, adottando la felice sintesi: “il piombo fa lustro, lo stagno fa bianco”. Senza addentrarci nei dettagli tecnici (grume o gromme, marzacotto, stagno accordato) che richiedono specifiche conoscenze di chimica, l’autore attribuiva l’abbagliante lucentezza e il caratteristico candore delle sculture in terracotta smaltata dei della Robbia al sapiente uso di quei due elementi. Restava e resta tuttora insoluto, però, il mistero della tecnica usata per l’applicazione del prodigioso smalto al biscotto (la terracotta, cioè, che ha subìto una prima cottura), che all’epoca poteva essere effettuata o per immersione (soluzione da escludere per le dimensioni di alcune opere) o con la pennellatura.

Ma, pur optando per questa seconda tecnica, resta inspiegabile come ciò potesse praticamente avvenire. Infatti, non appena si appoggia con il pennello lo smalto sulla superficie porosa del biscotto, la sospensione acquosa di vetro polverizzato (priva, cioè, di sostanze plastiche) di cui è composto viene avidamente assorbita in quel solo punto di contatto impedendone una pur rapida spennellatura su tutta l’opera. Come riuscivano, allora, Luca e i suoi discepoli, a fermare uniformemente sull’argilla quel corposo e lucente strato di smalto che ancora oggi continuiamo ad ammirare stupefatti? Intorno ai misteri degli invetriati robbiani ruota, anche, l’impianto narrativo del romanzo “La formula di Brunelleschi” di Gianfranco Micali (ed. Pendragon, 2005). Il libro, che dipana con la tecnica del giallo il mistero della morte di una giovane studiosa d’arte, riserva interessanti pagine al Rinascimento e rimarca il notevole contributo che a quel periodo apportò il formidabile e innovativo trio artistico formato da Filippo Brunelleschi, l’ardito artefice della cupola di Santa Maria del Fiore a Firenze, da Luca della Robbia e da Donatello.  

        Lino Soraci