Le arcane voci del sale e delle tonnare

Una ridda di voci poetiche, di suoni antichi e di desueti canti di lavoro aleggia per tutta la costa della provincia trapanese. Sono voci, suoni e canti che il mare culla amorevolmente, il vento trasporta, le pale dei mulini delle saline frullano vorticosamente e il sole rende tremolanti ed evanescenti come visioni di un miraggio che, subito dopo essersi vividamente materializzate, si scompongono, svaniscono, evaporano financo, lasciando in bocca l’amaro distillato della chimerica illusione.

In quella terra incantata posta ai limiti occidentali della Triquetra, anche Chrónos, il tempo logico e sequenziale, tirannico e fuggente per antonomasia, ama manifestarsi con una percezione di sé enigmaticamente intangibile, dilatata, irreale. Non rispetta più le regole del suo naturale scorrere, ma si diverte a giocare come un monellaccio: lanciandosi in capriole, giravolte, scatti, arresti improvvisi; mutando continuamente la sospesa dimensione spazio-temporale; sovrapponendo velocemente tra loro echi di mondi scomparsi che dispongono coloro i quali riescono a percepirli alla misericordiosa pratica della memoria.

Non deve sorprendere, quindi, se, trasportato dallo sciabordio della risacca, si oda il mesto lamento funebre del pio Enea per il vecchio padre Anchise morto a bordo della nave con la quale, dopo la fuga dalla distrutta Troia, stavano solcando le acque di quel salso mare che nutre il rosso corallo: Qui, lasso me! da tanti affanni oppresso,/ a tanti esposto, il mio diletto padre,/ il mio padre perdei. Qui stanco e mesto,/ padre, m’abbandonasti; e pur tu solo/ m’eri in tante gravose mie fortune/ quanto avea di conforto e di sostegno./ Ohimè! che indarno da sì gran perigli/ salvo ne ti rendesti. Ah, che fra tanti/ orrendi e miserabili infortuni,/ ch’Eleno ci predisse e l’empia Arpia,/ questo non era già, ch’era il maggiore!/.

I resti mortali di Anchise, secondo quanto tramandato dallo storico Tommaso Fazello, trovarono sepoltura nella Val d’Erice nei pressi di Bonagìa, un antico borgo marinaro sul quale ancora oggi svetta la possente torre di avvistamento progettata da Camillo Camilliani, l’architetto fiorentino chiamato in Sicilia nel 1583 dal viceré Marcantonio Colonna con l’incarico di riprogettare un sistema di fortificazioni che proteggesse efficacemente le coste siciliane flagellate dalle cruente incursioni dei barbareschi. La vecchia torre (distrutta, nonostante l’attuata opera di difesa militare, dai pirati nel 1624 e prontamente ricostruita sulle sue macerie secondo il progetto originale nel 1626 come testimonia la data scolpita sull’architrave della porta d’ingresso) è oggi sede del museo dell’attigua tonnara, la più antica di cui si abbia notizia.

Osservando i reperti esposti e visitando gli ampi spazi esterni sui quali giacciono, inerti, palischermi, muciare e àncore arrugginite, la suggestione temporale riprende il sopravvento. Prima sommessamente e poi sempre più distintamente riecheggia, infatti, nell’aria la “Cialoma di li tunnari”, un antico canto di lavoro della Sicilia occidentale (raccolto da Alberto Favara nell’opera: “Canti della terra e del mare di Sicilia”) che veniva intonato con l’assolo del capo Rais e la risposta corale ripetitiva, quasi ossessiva di tutta la ciurma intenta a tirare le reti nelle tonnare: Emuninni cu Maria/ (E amòla e amòla!)/San Giuseppe ‘n cumpagnia/ (E amòla e amòla!)/E lu tunnu è veru beddu!/ (E amòla e amòla!)/ Carricamu ‘stu vasceddu!/ (E amòla e amòla!)/ E di Genuva a Portufinu/ (E amòla e amòla!)/E Livurnu signurinu!/ (E amòla e amòla!)/E assummamu ‘sta safina!/ (E amòla e amòla!)/E sparamu ‘sta tunnina!/ (E amòla e amòla!)/Assumma! Assumma!

Non si è ancora completamente spenta la gioiosa eco della Cialoma che un’altra capriola del capriccioso dio del tempo muta improvvisamente scenario e protagonisti. Davanti agli occhi estasiati del viaggiatore si apre, ora, l’incantevole spettacolo naturale della tonnara di Scopello (dal greco Skopelós, scoglio) situata a pochi chilometri da Castellammare del Golfo.

L’antico nome di Cetaria attribuito a quei luoghi è indicativo  dell’abbondanza dei tonni che percorrevano fin dai tempi più remoti quella rotta, come documentato dal geografo greco Tolomeo e dallo scrittore latino Plinio. Due torri (di cui una progettata dal solito Camilliani e l’altra, più diruta, di epoca federiciana) troneggiano altere sulla caletta che, circoscritta da alcuni caratteristici faraglioni, lambisce placidamente la tonnara. Un alto muro di cinta protegge, invece, il malfaraggio, ossia l’insieme degli edifici che ospitava le dimore dei marinai, i ricoveri per le barche e i magazzeni per il deposito del materiale di uso comune per la pesca del tonno.

L’incontestabile fascino che emana da quel corpus architettonico propizia l’intervento di Kairós, il tempo opportuno, che, sotto le mentite spoglie del classico tempo musicale dei sei ottavi, evoca magicamente la sagghiàta (la salita), un caratteristico canto di lavoro  che si eseguiva a risposta tra il capo ciurma e la ciurma mentre si tirava a terra il pesante palischermo della tonnara: Ih! La sàgghia! Ah, leva, leva, veni!/(Ah, leva, leva, veni!)/Arrispunni la vuci:/( Uhé!...)/Sàgghiala, sàgghiala!.../(Sàgghiala, sàgghiala!...)/ Lu capitanu è bonu,/ (E la patruna ‘mmiré!)/ A biviri n’havi a dari./(A biviri n’havi a dari.)/Chi belli giuvinotti!/ (Uhé!...)/ Facemu forza para!/ (Facemu forza para!)/ A tia dicu, Pippinu!/ (Uhé!...)/Ah!.../.

L’esaltante esperienza del viaggio attraverso le vie del sale e del tonno non può che concludersi degnamente presso la salina Culcasi (in contrada Nubia nel comune di Paceco, a pochi chilometri da Trapani), dove, in un vecchio mulino completamente restaurato, ha trovato la sua sede naturale un interessante museo del sale. I pannelli con le foto d’epoca appesi alle pareti accendono i rombanti motori di un’avveniristica macchina del tempo che ci catapulta repentinamente nella vita grama dei salinari. La fatica fisica regna sovrana in quelle vecchie istantanee, trasuda dalle scure macchie di sudore che, impregnando i manici degli arnesi di lavoro, risaltano con la stessa icasticità delle impronte fossili dei dinosauri rimaste indelebilmente impresse nel terreno limaccioso del Giurassico. “Haiu l’occhi abbruciati du sali,/li manu sirrati du sali,/ e puru ‘u suduri è di sali! […] Sali e sali, muntagni di sali…/ Chi vita scipita ‘nt’o sali!”, declama dolentemente L’Omu di sali nell’omonima lirica del siciliano Renzino Barbera, poeta e autore teatrale contemporaneo.

Fuori dall’area espositiva, la vista spazia sulle varie vasche di dimensioni e livelli diversi dentro le quali, grazie al generoso contributo del sole e del vento, avviene la trasformazione delle acque marine in bianchi cristalli di sale. La loro geometrica successione risponde alla funzione che ciascuna di esse atavicamente svolge: dalle fridde, dove vengono direttamente convogliate, tramite un canale, le acque del mare non ancora trattate, al vasu cultivu, alla ruffiana, alle caure, alle sintine e, infine, alle caseddri all’interno delle quali si conclude il lungo ciclo lavorativo.

Ma ancora un’ultima fatica aspettava i salinari dei tempi andati: quella di trasportare con delle ceste a spalla il sale dai margini delle vasche, dove in un primo momento era stato ammonticchiato, fino al luogo di raccolta finale.

Per alleviare in qualche modo lo sforzo che richiedeva tale incombenza e, soprattutto, per non essere gabbati, i lavoratori cantavano dei “mottetti” indirizzati al “signaturi”, l’uomo di fiducia del padrone della salina preposto al computo dei carichi.

I mottetti, che finivano tutti con l’indicazione del numero progressivo di ogni cesta (carteddi o cavagni) faticosamente trasportata, erano, in totale, venticinque e corrispondevano, in termini di prodotto conferito, a una salma siciliana (circa due quintali).

Il “Cantu di li salinara”, che raccoglie la serie completa dei mottetti, ci è miracolosamente pervenuto grazie al Pitrè che l’ha inserito nel XXV volume della sua monumentale Biblioteca delle tradizioni popolari: Oh, cu l’aisa la lina!/ Camminamu picciotti,/e n’haju una!; Aisamu tanticchia/ e dui n’haju; Mittemucci sali e li salini/ e n’haju trini  E così via fino al venticinquesimo mottetto che così concludeva il canto: Lu Signuri è attaccatu alla culonna/ Ora chiamamu tutti a la Madonna/ Signaturi, mi la voli signari?/ Abbattitila arré/ chi vinticinqu n’havi! 

                                                                                                                                             Lino Soraci