L’alba del 28 dicembre

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“I grandi eventi hanno conseguenze incalcolabili”

(Victor Hugo)

L’alba del 28 dicembre 1908 era ancora lontana. Erano le tre del mattino quando Paolo si svegliò definitivamente, dopo ore di dormiveglia che non riusciva a trasformare in sonno. Aprì gli occhi nel buio appena rischiarato dalla luna, lasciata scoperta dal forte vento che non aveva smesso di soffiare nella notte particolarmente fredda. Con un brivido si strinse di più sotto le coperte, indeciso se cedere al torpore che avvertiva e che tuttavia andava svanendo, oppure alla voglia di alzarsi e fare una qualunque cosa che abbreviasse e accelerasse il lento passare del tempo. Inevitabilmente il pensiero andò a quanto era successo nelle ultime settimane, all’improvvisa svolta che stava per cambiare la sua vita. Intensi anni di studio, per quello che più che impegno professionale era vera e autentica passione, finalmente ripagati da quello che riteneva essere il giusto premio.

Non riuscì a rimanere ancora a letto. Preso dall’eccitazione e dalla necessità di muoversi si alzò e rabbrividendo si avvolse in una coperta. L’orologio ora segnava le tre e mezza. Nella stanza accanto prelevò dal braciere quasi spento il pentolone con l’acqua ormai tiepida, ne versò un poco nel bacile e cominciò a lavarsi, senza però concentrarsi su quanto andava facendo.

Orfano all’età di tre anni e senza altri parenti, era stato accolto in orfanotrofio. Padre Alfredo, il cappellano-educatore, aveva notato l’intelligenza che emanava dagli occhi di quel bimbetto che seguiva affascinato e con vivo interesse le sue storie e, più tardi, i suoi insegnamenti. Appassionato e grande studioso di storia, padre Alfredo aveva saputo trasmettergli l’amore per i fatti del passato, le gesta dei grandi uomini ma, soprattutto, per i fatti della vita di ogni giorno, quelli ignorati dai manuali. L’aveva iniziato negli anni allo studio della storia, ai metodi, all’analisi minuta dei fatti quotidiani che davano il senso della vita fisica, degli usi e dei costumi, ma anche della vita del pensiero di ogni generazione; tutto assieme, gli aveva insegnato, dava poi senso e significato alla grande Storia.

 A quindici anni Paolo aveva dovuto lasciare l’orfanotrofio. Padre Alfredo l’aveva allocato presso i suoi genitori, procurando di non fargli mancare il sostentamento fisico e intellettuale. Aveva potuto finire il liceo e, poi, l’università; si era laureato in lettere con una tesi in Storia, un pezzo di storia della sua Messina.

Versò altra acqua nel bacile e alla luce del lume cominciò accuratamente a radersi, studiando nel contempo –forse per la prima volta nella sua vita – la propria immagine nello specchio: trent’anni, il viso dall’incarnato pallido e delicato di chi ha vissuto lunghi anni lontano dalla fatica fisica e dalla luce del sole, le tracce tuttavia di chi ha lavorato molte ore al giorno sui libri, un’immagine diafana e lo sguardo distratto di chi attende con intensità al lavoro della propria mente.

Adesso era pronto, si sentiva pronto a raccogliere i frutti di tanta fatica e spenderli, finalmente, per quello che aveva da sempre sognato. Era stato un lunghissimo lavoro, faticoso ma piacevole per quella sua passione, anzi per quella sua brama di sapere, desiderio di conoscere, comprendere, interpretare la vita di chi è stato e non è più, di chi ha vissuto per l’implicito e quasi sempre inconsapevole scopo di costruire giorno per giorno la vita anche fisica, materiale, per chi sarebbe venuto dopo. Lo studio della sua Messina, in particolare, la città che amava, quello che essa aveva vissuto, aveva costruito, aveva anche tanto sofferto, quello che essa aveva rappresentato nei suoi trenta secoli di storia. Tutto questo Paolo aveva potuto e poteva vederlo, e non solo con gli occhi della mente, quelle volte in cui decideva di lasciare le sue letture per andare a bere avidamente del passato, della storia che trasudava da ogni pietra di ogni palazzo, da ogni sassolino di ogni strada calpestato da un’umanità secolare.

Grazie ai meriti che si era guadagnato col rigore e la passione dello studio, dopo la laurea aveva ottenuto l’incarico di storia al ginnasio, proseguendo tuttavia i suoi studi all’università. Poi di colpo la notizia: il posto di assistente della cattedra di storia dell’università era lasciato libero e messo a concorso. Paolo aumentò la già intensa attività di studio, ogni minuto del suo tempo libero era dedicato ai libri. L’alba lo coglieva sempre sveglio e ad ogni sorgere del sole la sua angoscia aumentava, sempre più convinto di non essere ancora pronto.

Il momento degli esami arrivò anche troppo presto. La mattinata scorse lenta con i primi candidati che con dignità e preparazione svolsero la loro brava mezz’ora di lezione. Giunto il suo turno, sconfortato Paolo iniziò a parlare col tono dimesso del convinto perdente; preso dalla passione, però, ben presto dimenticò le ansie nervose e si abbandonò con fervore alla sua lezione. Dopo un’ora e mezza stava ancora parlando alla commissione che lo ascoltava affascinata. Aveva scelto di parlare della sua Messina in un periodo particolare, il ‘400, che avrebbe poi lasciato la propria firma nella Storia della città. E lo fece con passione, tralasciando i grandi eventi e riferendo della vita di ogni giorno in quegli anni. Magistralmente mise assieme tutte le sue conoscenze sull’argomento, sicché la sua fu sì una lezione di storia, ma fu una lezione anche di geografia, di sociologia, di diritto. Man mano che la sua esposizione scorreva, agli occhi degli ascoltatori si svelava quasi fisicamente il pulsare tardo-medievale della città, la sua struttura, le abitudini e gli usi civili e civici, gli editti reali, le grida dell’amministrazione municipale, le corporazioni delle arti e dei mestieri, le lotte per le riforme della Chiesa e degli ordini monastici che avrebbero lasciato segni notevolissimi nella città.

Quando smise di parlare i presenti rimasero sconcertati per la concretezza con la quale Paolo aveva mostrato loro, in una visione quasi onirica, un secolo di storia; i loro volti rivelavano palpabile la delusione di vedere interrotta quella visione indotta, come un sogno spezzato da un rumore improvviso.

Sciacquando dal volto i residui della rasatura Paolo sorrise a quel ricordo, e non per il palese successo della sua narrazione, per l’assoluta mancanza di compiacimento, quanto per la soddisfazione che la sua visione della Storia riusciva a risvegliare intensamente tutta l’attenzione degli ascoltatori, fossero pure eminenti professoroni. Una narrazione rigorosa, lineare, dei fatti e … degli annessi e connessi, come usava dire, una personalissima visione della materia e un metodo di insegnamento acquisito per sé nei lunghi anni di studio e in seguito affinato con gli allievi del ginnasio.      Una settimana prima una lettera ufficiale gli aveva comunicato che oggi avrebbe dovuto iniziare l’attività. Era arrivato il gran giorno, oggi avrebbe tenuto la sua prima lezione all’università.

L’orologio segnava poco più che le cinque del mattino. Aveva indugiato più del solito nel sistemare le sue cose vista l’ora, ma non voleva rimanere con le mani in mano. Decise allora che sarebbe uscito a mitigare i propri pensieri e l’ansia al freddo del mattino. Magari avrebbe potuto ancora una volta approfittare di una tazza di caffè caldo in compagnia del custode nella guardianìa dell’università. Indossò il cappotto e il cappello e si avviò alla porta. Aprendola si rese conto che il buio era più fitto di quanto credesse, una folata gelida di vento lo respinse, ma ormai aveva deciso e stringendosi il cappello in testa si richiuse piano la porta alle spalle e si avviò per la stradella.

La casa distava poche centinaia di metri dall’università. Si trovava su un pianoro appena fuori le vecchie mura e si affacciava a sinistra sul torrente Portalegni, mentre sul davanti godeva dell’affascinante vista di quasi tutta la città. Dal piccolo spiazzo davanti la casa, la stradella scendeva costeggiando il torrente. Cercando di resistere alla furia del vento Paolo ne aveva percorso lentamente un centinaio di metri quando le folate cessarono per qualche istante. Non ebbe modo di accorgersene perché all’improvviso si ritrovò quasi sdraiato a terra a scivolare sulla ghiaia verso il basso per alcuni metri. Pensò subito con irritazione a qualche ciottolo e alla pendenza, ma non appena riuscì a fermarsi, ancora seduto si accorse che il terreno sotto di lui tremava violentemente. Si girò velocemente nel tentativo di mettersi in piedi, ma cadde in ginocchio con le mani e le gambe che non riuscivano a far presa sul terreno, scivolava sempre più in basso. La scossa durò una decina di secondi e solo dopo lui riuscì a mettersi in piedi e iniziare a correre verso la casa. Fu solo per qualche istante perché la terra ricominciò a tremare ancora più violentemente e più a lungo. Cadde nuovamente, disteso; con la faccia poggiata al terreno rimase immobile mentre le mani artigliavano la terra, quasi in un disperato quanto inutile tentativo di fermarne il tremore. La serie di scosse durò circa sessanta secondi.

Sconvolto e spaventato cercò nel buio di vedere la casa, ma la nuvola di polvere che si era intanto creata aveva cancellato ogni barlume di visibilità. Si sollevò, allora, e prese a correre sulle gambe malferme fin quando sbatté con violenza sul muro di mattoni. Arretrò di un passo e guardò in su, riuscendo a intravedere una sagoma che non gli era familiare: la costruzione, ora sbilenca, era crollata da un lato. La porta pendeva su un solo cardine, si fece forza e la oltrepassò per trovarsi sotto il tetto quasi totalmente crollato e una densa nuvola di polvere che turbinava per il forte vento che aveva ripreso a soffiare. Rimase incredulo e inorridito nel vedere quel che era rimasto della sua camera ed ebbe paura al pensiero di spingere quella porta sulla parete di fronte, la porta della camera dei poveri vecchi. Intuiva, nel buio, che solo la porta era rimasta in piedi, miracolosamente intatta. Non poteva fare nulla per loro, almeno fino a quando un lieve chiarore non l’avesse aiutato.

Si girò lentamente per uscire. Alzando gli occhi, sentì come un pugno violentissimo in mezzo al petto: fino a quel momento non aveva realizzato appieno gli effetti del terremoto. Il primo chiarore che si avvicinava da est, di là dello Stretto, illuminava debolmente una massa uniforme di polvere e fumo che si stendeva sulla città. La nuvola veniva spazzata a tratti dal forte vento, ma subito qua e là si innalzavano nuove colonne di fumo e polvere che si mischiavano tra di loro fino a compattarsi nuovamente in una massa unica, segno evidente che gli edifici crollavano uno dopo l’altro, senza soluzione di continuità, mentre i focolai di incendio si moltiplicavano ad aggredire le macerie e la vita che andava spegnendosi sotto le macerie stesse.

Stravolto si lasciò cadere sui gradini d’ingresso, prendendosi la testa tra le mani e cercando al tempo stesso di riprendere il respiro che gli si era bloccato. Stentava a rendersi conto di essere in quel momento testimone dello spegnersi di una città. Avvertiva, quasi, il rantolo sempre più insistente ma sempre più flebile di un’entità che affondava le sue radici in un passato lontanissimo. Un’entità vitale fatta di uomini … ottantamila sarebbero state le anime vinte nel corpo, oltre i tre quarti della messinesità, ma anche un’entità fatta di segni altrettanto vitali, testimonianze cariche di trenta secoli di storia.

Rimase a lungo immobile con i pugni sulle tempie, quasi a volersi punire di essere stato testimone di quello scempio della natura. Ogni tanto scuoteva la testa, quasi a negare quanto i suoi occhi avevano visto, quasi a voler cancellare gli effetti di quei sessanta lunghissimi, terribili secondi. Ma subito il dolore, quel dolore fisico che lo martellava e lo costringeva nel petto e alle tempie lo riportava alla coscienza di quelle perdite. Una pioggerella aveva cominciato a cadere e le gocce che cominciavano a formarsi e a scorrergli sul volto lo aiutarono a riscuotersi. Si alzò e si forzò a rientrare in casa avviandosi verso quella porta chiusa. Non ebbe bisogno di aprirla per rendersi conto che i suoi vecchietti erano morti. La parete esterna era crollata e fortunatamente il robusto incannato nel cadere tutto intero si era poggiato sulla struttura del letto proteggendo i corpi. Erano stretti l’uno all’altro, quasi a cercare e offrire protezione a vicenda. Non sembravano feriti, sicuramente i loro cuori carichi d’età avevano avuto pietà e risparmiato loro sofferenze ben più pesanti. Con cautela si avvicinò al letto, li sfiorò ancora caldi e morbidi nella debole speranza di trovare un lume di vita, ma inutilmente. Prese tra le braccia l’esile corpo di Lia e lo trasportò fuori poggiandolo delicatamente sul terreno, lo stesso fece con Antonio, posando il suo corpo accanto a quello di Lia. Con gli occhi umidi li guardò per qualche istante nel loro sonno, poi li coprì con una coperta e si avviò nell’orto deciso a preparare il loro ultimo letto coniugale.

Aveva appena afferrato il manico della pala quando avvertì dei passi che si avvicinavano di corsa. Voltandosi vide padre Alfredo che arrancava sfinito per la salita, tenendo sollevata la tonaca, il fiato spezzato dalla lunga corsa. Gli andò incontro e lo strinse forte, offrendo e cercando nel lungo abbraccio il conforto dei disperati. Si sciolse, mostrandogli pietosamente i corpi dei cari vecchi. Alfredo li guardò con occhi sbarrati poi, come se le forze gli venissero meno lentamente si afflosciò sulle ginocchia singhiozzando con le mani sul volto. Paolo lo guardò per qualche minuto sciogliere il proprio dolore, costringendosi a mantenere salda una forza che in effetti non era, poi lo costrinse a sollevarsi incitandolo ad aiutarlo nel lavoro. Dopo un’ora le salme erano state composte e Alfredo le benediceva con preghiere di suffragio. Volgendosi verso le rovine della città, con lo sguardo al cielo rivolse le stesse preghiere implorando pace e misericordia per la città e le sue anime.

Sedettero sfiniti e Alfredo cominciò a raccontare quanto aveva visto. Il terremoto l’aveva colto per strada, mentre andava a celebrare la prima messa per le suore dell’orfanotrofio. Sentiva nel buio i palazzi crollare uno dopo l’altro, anche il più solido veniva trascinato dagli altri. Le facciate erano le prime a cadere scoprendo l’intimità sconvolta della gente ancora a letto, poi anche le solette crollavano, trascinando con sé e spegnendo gli urli atterriti. In breve non era rimasto in piedi che qualche muro. Qualche urlo, qualche gemito ancora, sempre più debole, che la morte misericordiosa spegneva quasi subito nel gelido buio. Era corso all’istituto per offrire aiuto, con la polvere che aveva invaso anche il respiro e gli occhi. Non una voce, non un lamento, solo il rumore di qualche tardo mattone che ancora cadeva. Aveva corso a lungo e inutilmente, nella speranza di trovare qualcuno o qualcosa da soccorrere. Scavalcando o aggirando le macerie, nella tenue luce dell’alba era arrivato davanti alla cattedrale; del quasi millenario monumento rimaneva soltanto la facciata, tutto era crollato, comprese le massicce torri absidali. Un fragore alla sua sinistra lo fece voltare e sotto i suoi occhi la bella chiesa di S. Nicolò si richiuse su se stessa. Si voltò ancora, la maestosa via Austria non esisteva più, il cumulo di macerie era paradossalmente uniforme. Anche alla sua destra, a sud, i palazzi attorno alla piazza e, dietro, l’università e dietro ancora l’ospedale, era quasi tutto sparito. Quasi impazzito aveva preso a correre verso il Portalegni, pregando tra sé che la sua casa isolata fosse sopravvissuta, ma anche quello era stato inutile.

Finì il suo racconto tra i singhiozzi, mentre Paolo con gli occhi fissi davanti a sé guardava senza vederla la città che non era più. Quasi non aveva ascoltato le ultime frasi, quasi non si accorgeva che Alfredo si stava allontanando con passo pesante, dopo avergli lasciato una lieve carezza sulla testa.

Erano passate quasi tre ore e la luce ora era piena, anche se il cielo grigio pareva spargere il suo lutto con gravità. La nuvola di polvere e fumo era stata quasi del tutto spenta dalla pioggia che minuta continuava a cadere, lasciando che lo sguardo potesse scorrere sulla rovina.

Quanti i morti? Come poteva essere stata loro negata ogni difesa all’atroce scherzo della natura che aveva scelto una fredda alba per colpire meglio? Fato o casualità … poco importava ormai se un’alba, simbolo concreto di nuova luce, aveva invece spezzato irrimediabilmente il loro tempo.

E la sua città. Ogni frammento lui aveva amato, perché ognuno di essi portava in sé il segno di un passato che adesso non era più. Uno sull’altro, giorno dopo giorno, quei frammenti avevano costruito e rappresentato l’anima e il volto di una vita, anzi una civiltà millenaria. Quell’anima non esisteva più, la memoria viva adesso non era più, irrimediabilmente persa in quel cumulo indistinto di macerie, polvere tra la polvere.

Paolo considerò amaramente che la Storia della sua Messina non sarebbe stata altro che un’immagine evocata da un insieme di parole, non più vita e paradossalmente un nuovo capitolo era stato scritto quella mattina. La storia aveva ucciso se stessa.

Avvertì qualcosa che si scioglieva dentro, improvvisamente arrivò disperato e liberatorio il primo squassante singhiozzo e arrivarono impetuose le lacrime. Pianse, finalmente, pianse a lungo. Lentamente il suo petto si quietò, ma il fiume bruciante sulle guance continuò a scorrere senza che lui facesse niente per fermarlo.