Quando la Via della Seta mediterranea passava per Messina

Di Mario Siracusa

Le radici della lavorazione della seta affondano nelle leggende cinesi dei primi secoli dell’era Cristiana. La Cina, appunto, che detiene da allora il primato mondiale nella produzione del pregiato tessuto. Pare che la gelosia dei cinesi sia stata gabbata da alcuni monaci bizantini che, di ritorno a Costantinopoli, nascosero nei propri bastoni di viaggio alcune larve del baco. Da lì, attorno all’anno 1000, l’allevamento giunse in Italia, assieme alla coltivazione del gelso bianco, le cui foglie costituiscono l’unico alimento degli insetti.

L’allevamento del baco e la produzione della seta si diffondono rapidamente nel sud della Penisola, segnatamente in Calabria dove costituisce per secoli la voce principale dell’economia locale. In Sicilia per molto tempo il monopolio della seta viene retto da commercianti ebrei, mentre a Palermo – principale centro isolano di produzione – il lavoro è svolto da una quantità di schiavi importati da Corinto.

Ben presto anche Messina (prima tra le città siciliane per importanza politica, economica e commerciale) si adopera per lo sviluppo dell’attività serica. Nel 1591 il napoletano Alfonso Crivella, giunto in Sicilia per un’ispezione, nota che “il Val Demone più dell’altri Valli, et in particolare la città di Messina e suoi Casali sono abbondantissimi di seta”, e aggiunge, tra l’altro, che nella città dello Stretto “vi è concorso grande de fuorastieri, mercanti et negotianti, per essere il capo del mare de Levante ove vengono a drittura tutti li vascelli da quelli mari carichi de mercantie, et ivi consiste tutta la negotiatione, l’incetto et l’arbitrio della seta di tutto quel Valle, et particolarmente di quella città et suoi casali, che a questa sola industria più che ad altre attende”.

Messina, inoltre, da importante centro di produzione, diventa in breve anche luogo di intermediazione degli affari tra stranieri (spagnoli, francesi, inglesi, olandesi, genovesi, pisani, finanche africani) e calabresi (in Calabria, Messina ha addirittura un proprio console) e già nel ‘400 vi si svolge una importante “fiera della seta”, in concomitanza con quelle di Reggio e Crotone. Verso i setaioli messinesi, quindi, si rivolge l’attenzione di altre città siciliane, che colgono l’importanza del filo d’oro per la ricaduta economica derivante dal settore serico; maestri setaioli messinesi, infatti, mediante esenzioni fiscali e anticipi in denaro, vengono sollecitati dall’università di Trapani a trasferirsi in quella città sul finire del XVI secolo per impiantarvi i telai per tessere velluti e terzanelli (Baviera Albanese A., In Sicilia nel secolo XVI: verso una rivoluzione industriale?, 1974). Negli stessi anni l’università di Siracusa stipula contratti con tessitori messinesi per diffondere l’arte in città (Gallo F., Le gabelle e le mete dell’università di Siracusa, 1990).

La presenza a Messina del più importante Porto del Mediterraneo centrale fa sì che la città diventi punto di concentramento di tutti i traffici serici. Quello di Messina è, infatti, tra Cinque e Seicento, uno dei porti più “vivaci” del tempo. Nel XVI secolo la città compie ogni sforzo per mantenere la posizione di privilegio nell’industria serica: nel 1562, il parlamento siciliano stabilisce una imposta su tutta la seta greggia siciliana, ma il governo cittadino, nel 1591, sborsando 50.000 scudi ne ottiene l’abolizione; in più viene accordato il privilegio che tutta la seta della Sicilia orientale venga esportata solo da Messina (Giardina C., Capitoli e privilegi di Messina, 1937), con l’istituzione di un autentico monopolio; in sostanza, la città ottiene che tutte le sete prodotte in Sicilia tra Termini e Siracusa non possano essere esportate se non dal suo porto e da qui convogliate verso Genova, Livorno, Venezia, Bologna, la Francia, l’Olanda, l’Inghilterra e naturalmente la Spagna. Nel 1591 Filippo II concede alla Città tale privilegio (dietro il pagamento di 583.333 scudi); ad esso si aggiungeranno altre concessioni, come l’introduzione di gabelle varie e, soprattutto, la conferma del privilegio di ospitare il viceré per la metà del suo mandato.

Il privilegio del 1591 rappresenta, tuttavia, anche l’ultimo atto di un processo quasi secolare che aveva reso la città “egemone nel commercio di esportazione” e al contempo “una onerosa ipoteca a difesa di un settore”; l’operazione si rivela, infatti, meno redditizia del previsto giacché la nuova gabella sull’esportazione della seta risulta più gravosa dell’imposta regia, e ciò innesca frequenti pratiche di contrabbando. Occorre considerare che il mercato della seta si strutturava attraverso una rete di connessioni e interdipendenze che investivano un’area economica fortemente specializzata come il Valdemone, per cui se è vero che la privativa del 1591 si rivela infruttuosa sotto il profilo economico, è vero anche che il significato dei privilegia va letto e interpretato sulla base della percezione che di essa avevano i messinesi, ma anche gli osservatori e i cronisti dell’epoca. Il Trasselli, infatti (Siciliani fra Quattrocento e Cinquecento, 1981), sottolinea come i privilegi si inscrivevano non in un quadro culturale municipalistico, ma in una precisa strategia egemonica: il disegno ambizioso e caparbio di un’élite politica individualista, considerato che all’epoca non erano solo le città ad accumulare privilegi, ma anche gli individui e i gruppi.

Nel secolo successivo il volume dell’esportazione serica dal Porto messinese resta imponente, subendo un’impennata nel 1664 (grazie anche alle enormi riserve immagazzinate), anno successivo all’ulteriore ed effimera conferma ed estensione da parte di Filippo IV del privilegium del 1591. Il decennio successivo è, invece, caratterizzato da un crollo verticale delle esportazioni, che vengono dal Trasselli imputate al mancato ammodernamento delle fasi produttive, in un periodo in cui altrove si sviluppano le seterie e, quindi, si assiste al passaggio dalla fase produttiva artigianale a quella industriale. La recessione del settore a Messina risente, inoltre, anche della crescente concorrenza di Catania e Palermo e l’aumento del contrabbando: Il filo d’oro, per Messina, sta perdendo parte del suo splendore.

I segni di cedimento nel settore sono senz’altro avvertiti dall’élite politica messinese e s’inquadrano in un più ampio quadro di questioni – economiche, politiche e culturali – che danno luogo alla rivolta antispagnola del 1674-78, a conclusione della quale il governo spagnolo dichiarerà la città ribelle “muerta civilmente y incapaz de todo egenero de honores”, privandola di tutti gli antichi privilegi.