Tradizioni della Santa Pasqua: ‘U Signuruzzu

 

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Leggevo, tempo fa, da qualche parte, che l’anima di un popolo si rispecchia anche attraverso le tradizioni, che vengono tramandate da padre in figlio solitamente in forma orale; e che, tuttavia, tutto ciò che non è scritto subisce naturalmente l’usura del tempo e l’interpretazione di chi apprende e trasmette.

Assunto da condividere in pieno, considerato che le tradizioni popolari hanno subito un’evoluzione tale da risultare annacquate sia esteriormente, nella loro simbologia, sia intrinsecamente nei propri significati e valori semantici. In alcuni casi, “l’usura del tempo” ha addirittura cancellato importanti e storiche tradizioni.

Se questo vale per la tradizione orale, portatrice di cultura letteraria e musicale, di saggezza secolare nello studio e rappresentazione della realtà (i proverbi, ad esempio), a maggior ragione il peso della “modernità” si riversa su particolari tradizioni locali che riflettono e rivivono “fisicamente” usi e costumi, fino a travolgerle e provocarne la scomparsa, liquidandole come mero folklore dei tempi che furono e che oggi non trova e non può trovare (!) accoglienza nel mondo globale.

Ricordo, appunto, con nostalgia una delle “manifestazioni” tradizionali della Settimana Santa alla quale da bambino assistevo con forte partecipazione emotiva: “‘U Signuruzzu”, rappresentazione dell’ingresso di Gesù a Gerusalemme, tradizione secolare vissuta in un villaggio periferico della città, il Santo.

Sul finire della Quaresima, veniva “scelto” il protagonista (‘u Signuruzzu) tra i bambini del villaggio, maschi tra i 4 ed i 5 anni. La scelta costituiva, ovviamente, motivo di orgoglio per la famiglia, la quale assumeva per il bambino ed assieme al bambino un impegno che, come vedremo, si protraeva oltre la Domenica delle Palme. Era anche consuetudine, per il padre, festeggiare “la scelta” del proprio figlio con una “mangiata” (‘rrustuta) cui venivano invitati gli uomini tra gli amici più intimi.

La Domenica mattina il bambino veniva abbigliato con una veste bianca ed una tunica rossa; completavano l’abbigliamento i sandali ed una parrucca con lunghi riccioli biondi, dotata ovviamente di aureola irraggiata e dorata.

Tenuto per mano dal Sacerdote in Piviale, il bambino veniva condotto all’altare da dove, dopo una benedizione iniziale, si avviava la processione verso l’esterno della chiesa, per qualche centinaio di metri, seguita dai fedeli.

A questo punto iniziava la processione vera e propria (l’“ingresso”): in un cammino festoso, tra due ali di palme e olivi, accompagnato da canti il corteo si avviava verso la chiesa, che era stata lasciata vuota e col portone chiuso. Giunti al portone, il Sacerdote e ‘u Signuruzzu “bussavano” perché le porte fossero loro aperte, quindi si avviavano all’altare per la benedizione dei rami e la celebrazione della Messa di inizio della Settimana Santa.

L’impegno del Signuruzzu si concludeva così, salvo poi riprendere, nel periodo di Pentecoste, con l’accompagnare il Parroco nella visita alle famiglie per la rituale benedizione.

I miei ricordi sulla “tradizione” si fermano alla fine degli anni Settanta. Onestamente non sono in grado di dire fino a quando è sopravvissuta all’“usura del tempo”.

Mario Siracusa

La suggestività (intesa in relazione all’adattamento che di determinate tradizioni viene operato per le “aspettative” delle giovani generazioni) di particolari “feste” e/o “ricorrenze”, di solito veicolata in ragione di esigenze di natura soprattutto commerciale, ha fatto sì che, ad esempio, la “notte dei morti” di memoria anglosassone venga oggi utilizzata come occasione di “ordinaria follia”, uno dei tanti (ormai) appuntamenti di evasione, a prescindere dall