Santa Maria Alemanna

Quando, verso il 1220, s’inizia a Messina la costruzione della chiesa di Santa Maria degli Alemanni, in Francia l’architettura gotica sta raggiungendo il momento massimo della sua maturità e potenza espressiva, dopo aver definito le proprie fondamentali caratteristiche nella seconda metà del XII secolo nelle regioni della Francia settentrionale (Ile-de-France, Champagne, Piccardia), con un linguaggio assolutamente nuovo rispetto a quello degli edifici chiesastici di stile romanico. 

Mentre sono in fase di costruzione le tre grandi cattedrali gotiche francesi, Chartres iniziata nel 1194, Reims nel 1211 e Amiens nel 1220, la chiesa di Santa Maria Alemanna costituisce, senz’altro, l’immagine più completa dello stile gotico nato in Sicilia in un’epoca particolare, quella sveva, con l’imperatore Federico II che non diede alcun impulso allo sviluppo dell’architettura religiosa siciliana. Per converso, intorno al 1220 appunto, autorizzò l’Ordine dei Cavalieri Teutonici ad istituire un loro priorato a Messina e ad edificare la chiesa ed un ospedale.

In Santa Maria degli Alemanni è inequivocabile il carattere unitario, negli elementi stilistici e architettonici, che ne fanno l’unico esempio di architettura gotica siciliana della prima metà del XII secolo.

La pianta basilicale a tre navate e tre absidi orientate ad est, senza transetto, ripete l’iconografia classica adottata per un gran numero d’impianti chiesastici sia coevi che anteriori, e attualmente risulta ridotta nel senso della lunghezza poiché, dopo il terremoto del 1783, la facciata principale subì un arretramento di diversi metri, al punto da essere molto vicina ai pilastri a fascio della prima campata. Della copertura, presumibilmente a volte a crociera, interamente crollata, rimane soltanto qualche traccia e lo schema architettonico-strutturale è eloquentemente dimostrato dai pilastri polistili a fascio, su cui impostavano le nervature costituenti l’ossatura portante delle crociere.

Gli archi ogivali, anche se di forme spiccatamente gotiche per le molteplici, sottili profilature modanate che li fasciano, e, per il nuovo rapporto di proporzione tra larghezza ed altezza, mantengono ancora il ricordo dell’ogiva arabo-normanna non riuscendo ad esprimere in pieno l’arditezza strutturale propria del gotico. Dai resti del portale principale e, particolarmente, di quello laterale nel prospetto nord, si desume chiaramente una diretta derivazione dalla scultura bizantina e romanica. Gli stipiti, ad esempio, sono decorati in maniera uguale nella partizione geometrica in sei formelle circolari, ottenute dall’intreccio di tralci terminanti in rosette e grappolini stilizzati, con l’unica differenza delle raffigurazioni decorative centrali: leoni alternati a grifoni nello stipite destro e figure umane a torso nudo in quello sinistro, tutti rappresentati nell’atto di piegare indietro violentemente la testa.

In sostanza, la chiesa di Santa Maria degli Alemanni costituisce un esempio, eccezionalmente unico per la Sicilia, di organismo architettonico interamente di forme gotiche borgognoni nei pilastri a fascio; nelle campate coperte con volte a crociera ad ogiva; nei costoloni variamente profilati; nell’insieme delle colonne sottili e slanciate; nei capitelli floreali di foglie a grappa, non dovuto all’operato di maestranze locali sempre restìe all’applicazione di forme nuove che si allontanino dal solco della tradizione, ma, sicuramente, ad architetti nordici al servizio dei Cavalieri Teutonici o di ordini monastici. Come sia riuscita ad imporsi, anche se solo episodicamente ed in maniera isolata, questa cultura architettonica gotica nella nostra città, è un affascinante mistero ancora vivo nelle strutture superstiti dell’Alemanna, che ci parlano di una spiritualità medievale destinata a rimanere per sempre ignota a noi che non siamo più “uomini da Cattedrale”.

Santa Maria del Graffeo

In via I Settembre, al numero civico 171 della palazzina che forma angolo con la via Università, nell’atrio, si trovano i resti dell’antico ingresso di questo importante edificio chiesastico di rito greco-latino per il quale, il clero che l’officiava, fu sempre in armonia con la fede cattolica romana rifiutando qualsiasi adesione all’ortodossia scismatica. Per questo, il Protopapa, ebbe anche l’elogio del papa Eugenio IV al Concilio di Firenze del 1438.

La sua origine è legata alla separazione dei due riti religiosi (quello greco e quello latino) che si ebbe dopo lo scisma d’Oriente. In conseguenza di ciò, infatti, il Clero Greco che prima officiava nella chiesa di S. Maria La Nuova ( come anticamente era chiamato il Duomo), vista la continua preponderanza del Clero Latino si trasferì in questa chiesa, vicino alla Cattedrale, che venne denominata “Cattolica” secondo un privilegio accordato alle più importanti fra le chiese non latine di possedere un battistero, ciò che valeva per i greci il nome di KATHOLIKI.

Venne quindi introdotto il culto per la sacra immagine della Madonna del Graffeo che presso il Clero Latino era intesa come Madonna della Lettera ed entrambi la festeggiarono il 3 giugno. In funzione di questa profonda devozione la chiesa ebbe anche il titolo di S. Maria del Graffeo.

In seguito, con una Bolla Pontificia emanata dal papa Benedetto XIV (1740-1758) che voleva si mantenesse a Messina il rito greco-latino, vennero confermati al Clero Greco tutti i privilegi e le prerogative della Dignità Protopapale, compreso l’antichissimo diritto di eleggere il proprio Capo Superiore, chiamato Protopapa o Protopapas, “senza che persona alcuna s’ingerisse”.

Il protopapa Giuseppe Vinci, eletto il 23 giugno 1744, nel suo scritto “Documenti per l’osservanza del Divin Culto, Rito Greco-Latino” stampato a Messina nel 1756, ci fornisce un elenco completo dei Protopapa che, a partire dal 1130, si avvicendarono a ricoprire l’alta carica di guida della Chiesa greca a Messina. Fra le pagine di questo libretto c’è anche la notizia di un rifacimento della chiesa originale, avvenuto nel 1752 e ricordato da una lapide non più esistente che si trovava sul portale d’ingresso.

CATHOLICA

ECCLESIARUM GRAECARUM

MATER ET CAPUT

A FUNDAMENTIS AMPLIATA

A.D.MDCCLII

All’interno vi era, fra l’altro, il dipinto su tavola della “Madonna del Graffeo col Bambino e la Lettera”, opera del sec. XIV donata alla chiesa da Luciano Foti ed oggi conservata al Tesoro del Duomo; una pregevole acquasantiera scolpita a bassorilievo del sec. XIV e una colonna in marmo di epoca ellenistica (oggi al Museo Regionale) che sosteneva il fonte battesimale. Sulla sua superficie si trova un’epigrafe in greco che tradotta significa: “Ad Esculapio e ad Igea servatori tutelari della città”, analoga a quella riprodotta nella colonna dell’acquasantiera del Duomo e che testimonia quel culto a Messina in epoca greca.

Dell’impianto originale rimangono oggi, come si è già accennato, i pochi eleganti resti dell’ingresso costituiti da due campate gotiche con volta a crociera su colonne angolari e peducci inglobati nell’edificio, che sono stati risparmiati dal terremoto del 1908. 

Santa Maria della Valle - Badiazza

E’ opinione comune che la fondazione della chiesa risalga al tempo di Guglielmo II il Buono (1168), ma lo storico gesuita Placido Samperi, cui dobbiamo le più particolareggiate notizie, esprime parere che la fondazione possa essere ancora più antica, ciò che concorda con una vetusta tradizione secondo la quale il monastero sarebbe stato tenuto, in un primo tempo, dalle monache Basiliane, poi Cistercensi e quindi Benedettine.  Questa tradizione troverebbe conferma da posteriori documenti, i quali ne fanno risalire il ricordo al 1088, o, ancor più fondatamente, al 1103.

Nel 1167 la denominazione della chiesa, da S. Maria della Valle, venne cambiata in S. Maria della Scala a causa di un evento miracoloso legato ad un’immagine sacra che raffigurava la Madonna con una scala in mano, immagine trasportata a Messina da una nave, che, messa su di un carro tirato da buoi senza guida, venne portata lungo il letto dell’attuale torrente Giostra, fino all’eremo di S. Maria della Valle.

Nel marzo del 1168, Guglielmo II il Buono, con Margarita, sua madre, assegnava vari privilegi e donativi alla chiesa, riconfermati ed accresciuti il 13 febbraio 1196 da Costanza d’Altavilla, figlia di Ruggero II. Seguirono, quindi, quelli di Federico II di Svevia che con diploma dato in Messina il 9 agosto 1200, elevò la chiesa al rango di “Cappella Reale”. Durante la sollevazione dei Vespri, nel 1282, la chiesa venne assalita, saccheggiata ed incendiata dalle soldatesche di Carlo d’Angiò, che la spogliarono dei suoi tesori e distrussero molte opere d’arte. Sotto il regno di Federico II d’Aragona (1245-1337) il tempio risorse a nuova vita (grazie agli interventi di restauro effettuati in quel periodo), ma di breve durata: infatti, nel 1347, scoppiò la peste a Messina, per cui l’immagine della Madonna della Scala venne condotta, processionalmente, per la città ed in questa occasione, le monache iniziarono ad abbandonare la chiesa e il monastero, fino a trasferirsi definitivamente in un nuovo monastero costruito in città, adibendo la Badiazza a residenza estiva. Ciò durò fino a circa la metà del XVI secolo, quando i rigori del Concilio di Trento costrinsero le monache alla clausura in città; il complesso monastico, così abbandonato, cadde in rovina. In completo abbandono lo ricorda, infatti, il Samperi nel 1644: “…a guisa di un cadavero, spira tutta volta, come i cadaveri Reali, Maestà e grandezza”.

Ai danni dell’abbandono s’aggiungono le rovine provocate dalle intemperie: gravi quelle prodotte dalle alluvioni della prima metà del secolo scorso, particolarmente quella del 1840 e quella del 1855 che causò l’interramento interno ed esterno della chiesa e dal terremoto del 1851, che provocò la caduta di alcuni archi. Nel 1951-55 vennero effettuati dei restauri a cura della Soprintendenza alle Belle Arti, durante i quali furono ricostruiti gli archi, i pilastri e i relativi capitelli che erano andati distrutti nel terremoto del 1908; venne costruito anche un mastodontico muro di arginamento in calcestruzzo armato, con l’intenzione di proteggere il monumento dalle alluvioni e che, in realtà, lo ha parzialmente occultato alla visione.

Secondo Enrico Calandra, la chiesa deve il suo impianto basilicale alla trasformazione che subì il “santuario” a pianta centrica bizantino-normanno, fondato sui resti di costruzioni tardo-romane del V o VI secolo, quando vennero aggiunte le tre navate in epoca sveva al tempo di Federico II mentre altri autori, come il Bottari e l’Agnello, propendono per l’unitarietà del “santuario” con le navate, entrambi dello stesso periodo e comunque edificati dopo il 1086.

La cupola, di gusto arabeggiante, crollata tra il 1838 ed il 1840, era costruita quasi certamente in pietra pomice, materiale adatto a questa ardita forma architettonica per la sua leggerezza ma troppo fragile per sostenere il peso dei secoli. 

L’evoluzione verso forme sempre più gotiche del complesso architettonico verrà a definirsi completamente nei restauri e nelle aggiunte operate in epoca aragonese da Federico II d’Aragona intorno al 1303. Tale gusto gotico si avverte, infatti, abbastanza evidente nelle parti alte del complesso e cioè nei rifacimenti delle volte a crociera con l’aggiunta di costolonature bicrome (bianche e nere), a sezione quadrata. All’epoca dei suddetti restauri, risalgono anche l’edicola votiva situata nella parte alta del prospetto absidale e il portale principale d’ingresso, in risalto sulla facciata secondo lo schema tradizionale presente nell’architettura siciliana del Trecento, con gli archivolti ornati dal tipico motivo a zig-zag, introdotto in tempi normanni e poi abbondantemente diffuso in tutta l’architettura dell’Isola.

Di stile gotico-cistercense sono invece il portale laterale, dalle profilature sottili e slanciate e le mensole d’imposta dei costoloni delle volte e gli ornati delle chiavi di volta delle crociere che l’Enlart, nella sua opera “Origini francesi dell’architettura gotica in Italia”, ritiene d’importazione francese.

Per quel che riguarda la serie dei capitelli presenti nel “santuario” e nelle navate, sono da notare i diversi influssi stilistici bizantini, cistercensi, borgognoni pregotici, che li differenziano tra di loro. Alcuni di questi capitelli, pur nell’impronta già gotica, per la rozzezza del disegno e dell’esecuzione, ricordano forme barbariche. Le forme tipiche “contratte”, nettamente gotiche, sono invece presenti nei capitelli dalle foglie uncinate a “croquets” che coronano le due colonne nicchiate negli spigoli dell’abside centrale.

Dei fasti del passato, oggi, della Badiazza non rimane neanche il ricordo, travolto e seppellito dal tempo che fugge; ma le pietre parlano, e, a chi le sa ascoltare, raccontano anche di un profumato giorno di maggio del 1303 e di un amore nato proprio qui, sotto queste mura, tra Federico II d’Aragona ed Eleonora d’Angiò: nel 1329, a Messina, i due si sarebbero, poi, sposati. 

Santa Maria in Mili

Fondata dal Gran Conte Ruggero nel 1092, la chiesa di S.Maria a Mili San Pietro accoglieva il corpo del figlio Giordano, morto in battaglia a Siracusa.

Ad unica navata e tre absidi orientate ad est, secondo la tipologia architettonica dell'epoca, solo quella centrale è visibile all'esterno essendo le altre due comprese nello spessore murario, ciò che conferisce a tutto l'insieme del settore absidale uno stereometrico risalto.

Venne ampliata nel sec.XVI in lunghezza, con l'aggiunta di una nuova facciata e di un nuovo portale marmoreo.

La cupola centrale, in mattoni, imposta su pennacchi ad arcatelle concentriche, accorgimento costruttivo e decorativo diderivazione araba presente in altri edifici religiosi di epoca normanna affidati ai monaci dell'Ordine di S.Basilio( ad esempiop, Santi Pietro e Paolo d'Itala, Santi Pietro e Paolo d'Agrò, Santa Maria della Valle o della Scala, detta la "Badiazza, nel villaggio Scala Ritiro a Messina).

Sulle pareti laterali, ricorre la tipica decorazione ad archi ogivali incrociantesi presso la cuspide.

Dopo un intervento di ristrutturazione nel 2004, la Chiesa Normanna di Mili San Pietro è tutt'ora chiusa al pubblico; associazioni locali, come la CTG LAG "Proteggiamo la Natura" e l'associazione Ionio, si battono per la riapertura del bene.
a parte più notevole della chiesa è quella absidale, in cui spiccano le tre cupole emisferiche, la maggiore e le due minori, di chiara matrice islamica e l'abside centrale, l'unica emergente all'esterno, in stile romanico. La chiesa fu ingrandita nella prima metà del XVI secolo, subendo un allungamento longitudinale che determinò la realizzazione di una nuova facciata e l'innalzamento del livello della copertura.

A seguito degli interventi di restauro post terremoto operati dall'architetto Valenti, la chiesa fu totalmente spogliata all'interno degli stucchi, degli intonaci e degli altari. Provengono da essa una tavola del 1638 del pittore Francesco Laganà raffigurante la Madonna del Rosario raffigurata tra devoti oranti,un'acquasantiera in marmo cinquecentesca ed una campana settecentesca, custoditi nella chiesa parrocchiale di Mili San Pietro. La lapide che ricorda la sepoltura di Giordano è conservata nei depositi del Museo regionale di Messina.

Santa Maria Incoronata

La Chiesa parrocchiale S.Maria Incoronata a Camaro superiore.

La più antica notizia che possediamo sulla Chiesa parrocchiale di Camaro è contenuta nelle "Rationes decimarum", nei libri, cioè, di conti dei Collettori Pontifici per il regno di Sicilia, incaricati di riscuotere la decima per conto della Santa Sede.

In questi documenti si trovano anche preziose indicazioni sulla conservazione e permanenza del rito greco in Sicilia nei secoli XIII e XIV, con l'elenco di chiese e sacerdoti greci, oltre a monasteri basiliani.

Per Camaro si legge: «IN FLOMARIA DE CAMMARIS - Petrus Philippus grecus capellanus ecclesie S. Nicolai de Alto tar I; Presbiter Nicolaus grecus capellanus ecclesie S. Marie tar I gr. X; Presbiter Nicolaus grecus capellanus ecclesie S. Clementis tar I».

Delle chiese di S. Nicola dell'Alto e S. Clemente non esiste traccia, oggi, nel territorio, mentre quella di S. Maria che forniva una decima più alta - 1 tari e 10 grana - è da identificare con gli attuali ruderi della vecchia chiesa parrocchiale.

Il fatto che il maggior tempio di Camaro fosse officiato da un prete greco non deve sorprendere perché, per tornare indietro al tempo dei normanni, «...Ruggero non fece alcun tentativo per sopprimere la Chiesa greca ortodossa; al contrario, aiutò i Greci a ricostruirla.

La sua sola richiesta fu che essi si separassero dal patriarca e dall'imperatore bizantini: la gerarchia latina doveva dominare».

Lo storiografo Rocco Pirro, nella sua "Sicilia Sacra", tra le obbedienze e i monasteri assoggettati alla giurisdizione dell'Archimandritato del SS. Salvatore "Linguae Phari" nella punta estrema della penisoletta di S. Raineri, nel 1131, cita anche il monastero "S. Annae de Cammariis cum iurisdictionibus et pertinentiis suis... situm in... flomaria de Cammaris" (ancora oggi esiste, a Camaro, una contrada denominata S. Anna).

Per tornare alla chiesa parrocchiale, nella Guida del 1902 si legge: «Più in alto, è il villaggio di Camaro Superiore, la cui chiesa parrocchiale è del secolo XVI, come attesta l'architettura della porta esterna.

Nell'interno è da osservare la tavola di S. Giacomo, opera di Polidoro da Caravaggio, quella del Gesù che consegna le chiavi a S. Pietro, di ignoto autore, e la baretta del secolo XVII, in argento». Qui, dal 1550, aveva sede la Confraternita di S. Giacomo, tuttora viva e vitale e talmente importante nel panorama dell'associazionismo religioso al punto da essere citata, insieme a poche altre, da Giuseppe Buonfiglio nel 1606. Scrive, infatti, il cavaliere ed erudito messinese: "Sono adunque tutte le fraterne della città cinquantasei si come qui di sotto descriveremo...» e cita, appunto, quella che lui chiama Confraternita di "San Iacopo delli Cammari".

Il disastro del 1908 faceva crollare l'antica chiesa parrocchiale che era da ammirare per il portale maggiore marmoreo di epoca cinquecentesca. Questo scomparso manufatto doveva con ogni probabilità ricalcare, nella tipologia e nello stile, il prototipo gaginiano allora in voga nelle chiese parrocchiali dei villaggi messinesi e di cui si trovano, ancora oggi conservati, splendidi esempi tardo-rinascimentali nella Chiesa Madre di S. Nicolò a Pezzolo e nella semidiruta chiesa di S. Gaetano, a S. Stefano di Briga.

La presenza di questo portale testimoniava anche le radicali opere di rifacimento e restauro che la medievale chiesa di S. Maria ebbe nel secolo XVI. Ed è probabilmente in tale circostanza che venne introdotta la devozione verso San Giacomo Apostolo, con la sua proclamazione a patrono di Camaro.

Oggi, risalendo per via Chiesa Vecchia, si possono osservare i pochi ruderi superstiti dell'antica chiesa parrocchiale di S. Maria: il presbiterio con un cornicione sommitale di coronamento, tracce di stucchi e la canonica, attualmente adibita ad abitazione.

Nel periodo della ricostruzione post-terremoto, non fu possibile ricostruire la nuova chiesa nello stesso sito dell'antica, a motivo delle distanze fra i fabbricati imposte dalla rigida normativa antisismica per i Comuni colpiti dal terremoto del 1908. Un primo progetto redatto nel 1923 dall'ing. Antonino Duci e dal geom. Santo Giordano, si ispirava allo stile arabo, con la facciata decorata da pilastri arabescati e sormontati da statue.

Accantonata, poi, questa ipotesi progettuale, venne scelto, invece, il progetto dell'ing. Francesco Barbaro, datato agosto 1928, che fu quello poi realizzato

Scrive mons. Giuseppe Foti in proposito: «L'edificio si sviluppa su tre navate con transetto: la centrale è larga m. 6,70 e usufruisce di un'ampia abside, mentre le laterali, larghe m. 3,80 ciascuna, si chiudono sul transetto. L'altezza è di m. 7,10 nelle navatine, m. 12,60 nella centrale e 14,60 nel transetto; questo motivo dell'altezza del transetto che sovrasta la navata centrale si ripete nel Duomo di Messina, nella chiesa di S. Francesco all'Immacolata e in tante altre chiese di Messina.

Il campanile è alto m. 18,70. La struttura resistente è costituita da telai a maglie di cemento armato con tamponamenti di mattoni pieni nelle parti basse e forati in quelle alte.

Anche le capriate e gli arcarecci del tetto sono in cemento armato mentre l'orditura leggera è in legno».

Come gran parte delle architetture chiesastiche della ricostruzione, il nuovo tempio parrocchiale si ispira al Romanico (a titolo di esempio, citiamo la chiesa di S. Maria Annunziata a Camaro Inferiore e quella di S. Leonardo in S. Matteo, a Villa Lina).

Le pareti della navata centrale, infatti, si sviluppano su archi a pieno centro poggianti su pilastri e sulle colonne divisorie delle navate. Il motivo decorativo delle cuspidi di facciata sulle quali impostano le falde dei tetti spioventi, è risolto con elementi cari al repertorio stilistico romanico e, cioè, la serie di archetti pensili.

Nelle lunette dei tre portali, dei quali il maggiore è aggettante con protiro secondo l'uso romanico, trovano posto dei bassorilievi in stucco cementizio raffiguranti "U incoronazione della Vergine", lo "Sposalizio di Maria con S. Giuseppe" e "San Giacomo a cavallo che combatte contro i mori".

Il costo complessivo dell'edificio chiesastico fu di L. 895.000, coperto con i fondi della Convenzione del 1928 fra la Curia messinese, rappresentata dall'Arcivescovo mons. Angelo Paino, e lo Stato.
I lavori, eseguiti dalla ditta Parisi Salvatore, ebbero inizio il 9 aprile del 1929 e portati a termine il 30 giugno del 1932.

La nuova chiesa dedicata a Santa Maria Incoronata conserva parecchi reperti ed opere d'arte recuperate dalle macerie di quella antica. In particolare, gli altari settecenteschi in marmi policromi intarsiati con la tecnica del mischio e rabisco, di S. Giacomo e S. Giuseppe. Inoltre, una pregevole acquasantiera cinquecentesca, alcuni paliotti d'altare intarsiati e i marmi dell'imponente altare maggiore.

La più importante opera d'arte, oltre al "Ferculum" di San Giacomo, è comunque la celebre tavola raffigurante l'Apostolo, capolavoro indiscusso del pittore e archi¬tetto Polidoro Caldara da Caravaggio nato nel 1493 e morto a Messina nel 1543, discepolo di Raffaello Sanzio.

Si tratta di un dipinto ad olio, originariamente su tavola e poi trasferito su tela nel corso di un restauro effettuato nel 1968. Il santo è raffigurato in cammino col bastone da pellegrino ed il libro aperto, simbolo della sua opera di evangelizzazione. Sullo sfondo una vallata, che potrebbe anche essere quella di Camaro.

Francesco Susinno, nel suo volume "Le Vite de' Pittori Messinesi", assegna la tavola nel novero delle opere più importanti di Polidoro e ricorda, anche, la particolare devozione dei "terrazzani" (come definisce gli abitanti di Camaro) che avevano ricoperto, nel Settecento, il dipinto di cristalli a scopo protettivo.

Altre pregevoli opere d'arte sono la tavola raffigurante "Gesù che consegna le chiavi a S. Pietro", di ignoto autore seicentesco; la "Stigmatizzazione di S. Francesco", anch'essa di ignoto pittore del Cinquecento; una settecentesca "Madonna del Rosario" attorniata da 15 quadretti con i Misteri del Santo Rosario; una "Madonna della Lettera con S. Nicola Vescovo", di ignoto settecentesco; una tavola raffigurante "S. Caterina d'Alessandria" in abito sontuoso e con gli strumenti del suo martirio, la ruota e la spada, e ai suoi piedi il persecutore Massenzio.

La splendida statua argentea dell'Apostolo Giacomo e la varetta processionale in lamina d'argento sbalzata e incisa, commissionata nel 1666 a Pietro Juvarra ed altri suoi familiari, costituisce il prezioso simbolo della comunità di Camaro e della sua antica fede.

San Giacomo, opera di Francesco Donia, è raffigurato in armatura con la spada e lo stendardo, secondo l'iconografia classica spagnola.

E a testimoniare ulteriormente questa profonda devozione dei cammaroti verso San Giacomo, un curioso dipinto del 1841, dai tratti popolareschi e da inquadrare nella tradizione delle tavolette votive "per grazia ricevuta", è conservato in sacrestia: rappresenta il tentativo di sottrarre la preziosa varetta di San Giacomo, prodigiosamente andato a vuoto per intervento divino. La scena si svolge nella vallata di Camaro, dominata dai possenti spalti del Castello Gonzaga e dall'Eremo di San Giacomo a tramandare, ai posteri, l'antichissima storia di fede di questo antichissimo villaggio messinese.

Una nota, merita il Museo con arredi liturgici ed ex voto, voluto e creato da Padre Antonino Cento, parroco della chiesa di Santa Maria Incoronata di Camaro superiore.

Al suo interno, ben disposti in teche di cristallo, antichi e preziosi paramenti sacri appartenuti ai precedenti parroci; fa, anche, sfoggio il corredo ecclesiale d'argento, risalente al secolo XVII e ai primi decenni del XX secolo, appartenente alla parrocchia.

Quasi tutto l'arredo è stato realizzato da artigiani messinesi, e ciò si evince perchè sono punzonati e marcati con lo stemma della città di Messina.

 

 Il "Ferculum"di San Giacomo Apostolo

di Padre Antonino Cento Cappellano dell'Ordine di San Giacomo.

E' un'altra opera dell'oreficeria barocca messinese del XVII secolo eseguita da Pietro, Giovanni, Sebastiano ed Eutichio Juvara, i quali, assieme a Refaci e Donia crearono un S. Giacomo, il "defensor fidei" secondo l'ideale dei gesuiti. Il Santo con la mano sostiene i lembi di un mantello.

Il volto ha un'espressione dolce èd è incorniciato da una fluente barba; un'aureola ne cinge il capo. Costò 337 onze e 22 tari.

Il "Ferculum" ha una forma piramidale alla cui sommità è posto il santo in vesti marziali latine che richiamano l'Orione della fontana cinquecentesca del Montorsoli.

Su uno zoccolo di legno, si elevano quattro supporti a forma di C, tipici dell'ebanisteria barocca, a forma di cariatidi che circondano lamine d'argento illustranti episodi dell'agiografia giacobea più nota.

Nella parte superiore la statuina del santo impugna la spada (aggiunta dopo, a quanto riferisce il più anziano dei confrati Sig. Giacomo Sturniolo) e lo stendardo dell'esclusivo ordine di San Giacomo di Compostella.

Nella parte inferiore si notano 4 pannelli.

Il primo raffigura il famoso miracolo avvenuto a S. Domingo della Calzada ad opera del santo che fece risuscitare due polli arrostiti per testimoniare l'innocenza di un giovane pellegrino, accusato ingiustamente di furto dalla figlia dell'oste.

Il secondo raffigura San Jacopo che incita Carlo Magno a combattere i musulmani.

Il terzo rappresenta la conversione del mago Hermogene.

Nel quarto si nota S. Yago con il classico cappello del pellegrino con un libro in mano (che potrebbe essere il Vangelo), mentre affronta un viaggio.

Nel pannello della piramide superiore si nota il "matamoros" della battaglia di Clavijo; nel secondo, l'angelo nocchiero guida l'imbarcazione che potrebbe essere quella che trasportava le spoglie nella Spagna; nel terzo è inciso l'arrivo dell'arca nel regno della regina Lupa; ed infine l'omaggio alla Confraternita che ha sempre avuto cura del culto al Patrono della Spagna.

 Anche nei tempi odierni, la confraternita osserva una ritualità immutabile nel tempo.

Qualche giorno prima della festa del 25 luglio, i confrati lucidano la varetta che appare nel suo'pieno splendore; il 24 luglio, con concorso di popolo e canti, essa viene trasportata in chiesa e posta accanto all'altare coram.

 L'indomani, nelle prime ore della mattinata si forma il corteo, ogni due marce di musica avviene la sostituzione dei portatori, i quali sono abilissimi nell'imprimere al ferculum quell'inquadratura tipica definita "a 'nnacata".

Si percorrono i 3 chilometri per raggiungere la Basilica Cattedrale, dove il santo verrà posto sull'altare "coram" fra le reliquie dello stesso S. Giacomo, quella di S. Sebastiano, S. Marziano e di S. Nicola.

Al termine della Santa Messa attorno al Duomo si snoda la processione del Sacro capello della Madonna posto sul ferculum d'argento e, al rientro, S. Jacopo ritornerà al suo posto.

Con la canicola del mezzogiorno inoltrato, il "Ferculum" raggiungerà Camaro velocemente per scongiurare la credenza del rischio che altri possano impossessarsi se esso non raggiungerà entro una data ora, la Chiesa di S. Maria Incoronata in Camaro Superiore (leggenda popolare).

I festeggiamenti proseguono con canti, musica e sparo di mortaretti, ma quello che è storicamente valido, è stato ancora una volta attuato. "Herru Sanctiagu, / got Sanctiagu / e ultreja, e suseja / Deus adiuva nos". Così cantavano i primi pellegrini incitandosi a vicenda a proseguire nel Cammino, fino al raggiungimento della meta. Così ci auguriamo anche noi.

Santa Maria La Nuova

Dalla Piazza S. Vincenzo, salendo per Via Quod Quaeris e all’interno del quartiere S. Leo che conserva edifici dell’800 con la caratteristica tipologia della “casa e putìa”, si giunge alla chiesa di Santa Maria La Nuova.

Inaugurata il 18 agosto 1933, venne edificata su progetto dell’ing. G. Viola.

Si presenta a pianta centrica e la sua facciata si ispira allo stile classico–rinascimentale delle chiese romane.

All’ interno custodisce, oltre ad una miracolosa immagine marmorea a bassorilievo della Pietà, un "Crocifisso" del ‘700, un quadro della "Madonna Nuova" opera del pittore Egitto (1910) ed un artistico altare maggiore intarsiato in stile barocco (sec. XVIII).

Il portico insiste su sei colonne, tre per lato, e la chiesa ha una grande cupola sovrastata da un lanternino finestrato circolare, su cui poggia una grande croce.     

Santa Rita

San Paolino agli Orticoltori o Santa Rita

Si legge negli statuti della Congregazione dei “Giardinari Hortulani Insalatari” che la chiesa di San Paolino agli Orticoltori venne “…fondata et fabbricata in questa nobile città di Messina nella Contrata dela Biveratura Vecchia fora li mura dela Porta Imperiale di questa città…a 30 di Augusto Inditione 1600”. Nel 1620 alloggiò i padri Carmelitani Scalzi di Santa Teresa, venuti per la prima volta a Messina, ed ebbe pochi danni nei terremoti del 1783 e del 1908. Nel 1938 fu demolita l’originaria facciata e la chiesa venne accorciata per consentire l’allargamento della via Santa Marta. Fortunatamente si salvarono gli affreschi di Giovanni Tuccari realizzati nel 1719 e raffiguranti, alcuni, storie della vita di San Paolino. Questo santo, vescovo di Nola, nacque a Bordeaux e fu uno dei maggiori poeti lirici dei primi secoli del Cristianesimo (354-431).

Si possono ammirare, nella piccola chiesa, un affresco di Giovanni Tuccari (1667-1743) nell’altare del Crocifisso raffigurante “la Madonna, Maddalena e S. Giovanni” con al centro un pregevole Crocifisso in cartapesta (sec. XVIII). Il ciclo di affreschi del Tuccari comprende “Sant’Isidoro”; “Supplica di San Paolino”; “Santo ortolano e confrati”; “I santi Angeli Custodi”. Letterio Subba (1787-1868) affrescò, invece, “Storia della vita di San Paolino”. Sull’altare maggiore in splendide tarsie marmoree policrome (sec. XVIII), troneggia una grande pala con “San Paolino, la Vergine e sullo sfondo gli orti della Maddalena”, dipinta nel Seicento da Giovan Battista Quagliata, in un tripudio di stucchi settecenteschi. Tutti gli affreschi furono restaurati dalla SI.G.E.R.T. S.p.A. dall’allora presidente comm. Francesco Cambria, nel 1990, su iniziativa dell’”Inner Wheel” presieduto da Ebe Martines. I lavori vennero diretti dalla dott.ssa Caterina Ciolino della Soprintendenza di Messina.

La chiesa è molto popolare per il culto che viene tributato ogni 22 maggio, dal 1925, a Santa Rita da Cascia, con la distribuzione ai fedeli di rose benedette.