Il terremoto di Lìu

Appoggiato al davanzale dell’ampia finestra spalancata, il vecchio Lìu, con espressione assorta, fumava il forte sigaro toscano emettendo dalla bocca, sovrastata da un paio di monumentali baffi, voluttuose volute di fumo che si dissolvevano lentamente nell’aria straordinariamente mite di quel ventisette notte del dicembre millenovecentootto a Messina.

    Era domenica e la figlia, Sisina, in compagnia del marito, stava ormai assistendo alle ultime battute dell’opera lirica di Verdi, Aida, in cartellone al Vittorio Emanuele, l’ ottocentesco teatro cittadino dalla perfetta acustica progettato, sull’esempio del San Carlo di Napoli, dall’architetto napoletano Pietro Valente validamente coadiuvato, nel corso dei lavori, dall’architetto messinese Carlo Falconieri.  

    La sua cena era stata frugale: verdure lessate, frutta e un bicchiere di buon vino rosso dentro il quale amava intingere dei bocconi di pane. In verità, aveva un po’ esagerato con gli “scacci”. Ma non era riuscito a tenere a freno l’ingordigia di fronte a tutta quella varietà di frutta secca doviziosamente contenuta in un cestino ovale di vimini dal quale facevano capolino gli orli sfrangiati e vistosamente ricamati in rosso di un centrino di stoffa letteralmente sommerso da tutto quel ben di Dio. Sedeva da solo a tavola e il secco rumore prodotto dal martello col quale spezzava, sopra un acconcio pezzo di legno adagiato sulle gambe, il robusto guscio di noci, nocciole e mandorle, penetrava, con discontinua intermittenza, il fitto silenzio che avvolgeva la casa.

    La fantesca aveva già accudito al nipote Luigino la cui nascita, avvenuta sei anni addietro, aveva di nuovo rallegrato la vita al nonno che, sconsolatamente vedovo, pativa la perdita dell’amatissima moglie morta, pace all’anima sua, di tisi. Fortunatamente il bambino cresceva, invece, bene e proprio in quell’anno scolastico aveva cominciato a frequentare la prima classe elementare, con grande orgoglio di Lìu che ogni mattina lo accompagnava amorevolmente a scuola infagottato nel grembiulino ben stirato e col fiocco del colletto che gli svolazzava sul petto come una grande farfalla tropicale.  

    L’appartamento in cui vivevano prospettava sulla via Ferdinanda, una delle principali strade della città eccezionalmente trafficata, in quell’ora tarda, dalle carrozze che riconducevano a casa gli spettatori delle dolorose vicende d’amore della celeste Aida e del prode Radames. Gli gnuri, statuariamente seduti a cassetta con la “cerata” adagiata sopra le gambe, cadenzavano il ritmo dell’andatura dei cavalli con aeree schioccate di frusta sopra le groppe degli animali che, procedendo al piccolo trotto, facevano risuonare allegramente zoccoli e ruote sul rugoso basolato lavico.   

    Prima di appostarsi alla finestra dalla quale si stava godendo tutto quel movimento, aveva per qualche ora ciondolato smarrito per casa rimuginando sul fatto inquietante che gli era accaduto subito dopo cena. Si era appena alzato da tavola per andare a dormire quando, all’improvviso, era stato misteriosamente còlto da una strana inquietudine. Pur non riuscendo a spiegarsi la causa di quel molesto turbamento, avvertiva istintivamente che non era dovuta a un male fisico. Questa convinzione lo aveva rassicurato, ma gli era comunque sembrato saggio aspettare il rientro della figlia e del genero prima di ritirarsi nella sua stanza nella quale aveva approntato il presepe che odorava ancora di muschio. Le statuine di terracotta che popolavano quella sacra scena erano, in buona parte, quelle con le quali lui stesso, fin da bambino, nel giorno dedicato all’Immacolata, come prescrive la tradizione, aveva allestito, sotto la direzione vigile e affettuosa della madre e del nonno, l’annuale rappresentazione della Nascita del Gesù Bambino ideata dalla mistica fantasia del poverello d’Assisi per glorificare il suo Signore.

    Come generalmente capita alle persone in età avanzata, si lasciò sopraffare dall’onda di quei remoti ricordi dentro i quali continuò a fluttuare fino a quando la voce della figlia, che lo chiamava scuotendogli delicatamente un braccio, lo riportò alla realtà. Sisina era davvero incantevole. Indossava con innata eleganza l’abito da sera che fasciava morbidamente il suo bel personale. L’ovale del viso della figlia gli ricordava in modo struggente quello lungamente vagheggiato della perduta moglie. Pervaso da intensa emozione, baciò teneramente sulla fronte Sisina e strinse calorosamente la mano al genero che si era discretamente tenuto un po’ più appartato. Non fece parola del malessere che l’aveva assalito! Chiuse con cura le imposte della finestra, salutò ancora una volta con trasporto i due coniugi (che si scambiavano furtive e divertite espressioni facciali di perplessità per quel suo strano modo di procedere) e si congedò, infine, da loro pregustando l’intenso profumo di muschio che lo avrebbe accolto nella sua camera.

    Gli echi provenienti dalle altre stanze e dalla strada cominciarono ad attutirsi, le luci di casa si spensero completamente e il vegliardo, abbandonatosi sul letto, si concesse al riposo notturno.

    Fece così il suo ingresso il successivo giorno ventotto.

    Quel lunedì, nelle sue prime ore, si presentò simile ai tanti altri che lo avevano preceduto. Fino a quando le lancette dell’orologio non segnarono sul quadrante le ore cinque, ventuno primi e quarantadue secondi. Allo scoccare di quell’ora fatidica, il Padre Eterno, per ammonire l’umanità sulla certezza del giorno del Giudizio Universale, aveva, infatti, deciso di effettuare, su quel disgraziato lembo di mare e di terra, la prova generale della fine del mondo. I sette angeli delle sette trombe dell’Apocalisse giovannea, aperto il sipario del cielo ancora buio di Messina, fecero risuonare le acute note dei loro ottoni dando il via al cataclisma. Un pauroso boato scosse l’aria, un fitto vortice di vento e nebbia avviluppò la città, la terra cominciò a tremare paurosamente.

    Lìu, desto fin dalle prime avvisaglie, saltò giù dal letto e vi si rifugiò, bocconi, di sotto mentre i continui tremori delle strutture della casa facevano crollare tutto intorno intonaci e travi. Per darsi coraggio, cominciò a recitare sommessamente qualche preghiera rannicchiandosi ancora di più sotto quel precario riparo. A ogni nuova caduta di materiale, le tavole disposte sopra gli alti trespoli del letto, flettendosi pericolosamente, emettevano mille sinistri scricchioli. Tra un crollo e un altro, con la bocca impastata di polvere e di paura, chiamava angosciosamente la figlia e il genero. Ma nessuna risposta pervenne alle sue orecchie.

    Un tonfo ancor più assordante degli altri seguì al crollo del soffitto che rovinò avvolgendo la stanza in una fitta coltre di polvere.

    Diradatasi, dopo qualche tempo, quell’atra nube, una livida luce rischiarò la stanza. Stranamente, in quel caos informe che si era creato, gli riuscì focalizzare distintamente alcune statuine del presepe che, in ordine sparso, giacevano appena un po’ discoste da lui. I loro fragili corpi di terracotta avevano subìto orrende mutilazioni. Istintivamente, allungò la mano e ne raccolse una. La riconobbe subito, malgrado mancasse della testa, di entrambe le braccia e di parte di una gamba. Era il pastore con l’agnellino sopra le spalle che il nonno materno gli aveva regalato in un ormai lontano Natale. Con fare meccanico la ripulì pietosamente passandole sopra le mani per poi deporla delicatamente accanto a lui. 

    Le continue scosse telluriche che si succedevano a brevi intervalli non gli consentirono, per qualche tempo, di uscire ancora allo scoperto. Riprese, allora, a urlare disperatamente il nome degli altri componenti della famiglia. Nessuno gli rispose. Gli facevano, invece, eco i pianti e le grida di madri, di mariti e di bambini che dai vicini edifici invocavano soccorsi. Approfittando di una pausa dello sciame sismico, uscì faticosamente da sotto il letto ormai completamente circondato dalle macerie. Non fu agevole dirigersi verso la stanza della figlia. Enormi travi e una miriade di grosse pietre ne ostruivano l’accesso. Altra difficoltà di non poco conto: considerevoli parti del pavimento erano crollate e si rischiava di essere inghiottiti da quelle voragini. Con voce strozzata e supplichevole, richiamò i due coniugi. Per un’infinita manciata di secondi, restò in vigile ascolto per carpire il benché minimo cenno di risposta o qualche pur lieve rumore che provenisse da quella parte. Niente!

    Il bambino, il bambino… ora doveva pensare al bambino, a Ginuzzu!

    La stanza del nipote era attigua a quella della madre. Scavalcò altre macerie e finalmente la raggiunse. Anche quella parte della casa era stata gravemente devastata dal sisma. Mentre procedeva tentoni, chiamò a gran voce Luigino, ma il richiamo restò inascoltato. Cominciò, allora, a spostare disordinatamente alcuni grossi pezzi di calcinacci alla ricerca di una qualche traccia che indicasse la posizione del bambino. In quella luce incerta, la sua attenzione fu catturata da una larga chiazza bianca che spiccava vistosamente tra le rovine. Si avvicinò per individuarne la natura e scoprì con raccapriccio che si trattava della camicia da notte indossata dalla giovane serva il cui corpo giaceva senza vita sotto il grave peso del soffitto crollato. Un pianto intrattenibile e convulso allora lo prese. Sentì le forze venirgli improvvisamente meno e crollò a terra esanime. 

    Tornò in sé, dopo un tempo indefinito, quando la luce del giorno rese interamente e crudelmente visibile l’entità del disastro. Lo spettacolo che gli si presentò davanti agli occhi fu raccapricciante. Tutto quello che a vista d’occhi lo circondava, era andato distrutto. Non riusciva a darsi pace. Girava continuamente la testa dappertutto con la speranza di vedere materializzarsi davanti agli occhi le sagome dei suoi cari. Bisbigliava i loro nomi come se li avesse materialmente vicini, per poi prorompere in disperate grida di dolore. Tra mille difficoltà, decise di recarsi di nuovo nella stanza della figlia. Risultò subito evidente che non gli sarebbe stato possibile scavare in quell’immane rovina. Dopo vari e vani tentativi di ricevere una risposta ai suoi richiami, se ne tornò nella stanza del nipote. Stanco e avvilito si sedette inebetito sopra un cumulo di macerie tenendosi sconsolatamente la testa tra le mani, incapace di prendere anche la più semplice decisione. 

    Qualche minuto dopo, un impulso insopprimibile lo indusse ad alzarsi come un automa per liberare completamente dalle macerie il povero corpo della serva. Arrivato all’altezza della mano destra del cadavere, notò che era distesa come se volesse indicare l’angolo in cui s’incrociavano due monconi di muro esterno parzialmente coperti da un cumulo di rovine. Vi si accostò cautamente chiamando per nome il nipotino. Nessuna voce gli rispose. Prese, quindi, a batterci sopra con uno spezzone di legno che aveva individuato in quel mare sconvolto di detriti e restò in ascolto. Niente! Continuò a percuotere testardamente su quelle macerie, intervallando la percussione con l’accorata invocazione del nome del nipote: Ginu, Ginuzzu! Niente, ancora niente: nessuna risposta, nessun movimento, nessun rumore!

    Nonostante il risultato deludente, la convinzione che il nipote potesse trovarsi lì sotto sano e salvo lo indusse a scavare con foga, quasi con rabbia. Ansimava per lo sforzo profuso e dovette sospendere spesse volte il faticoso lavoro condotto a mani nude. Ora, un ultimo groviglio di assi e travi gli impediva di vedere cosa ci fosse sotto. Gli venne un tuffo al cuore quando cominciò a scorgere la forma di un ginocchio e poi, a mano a mano che lo scavo procedeva, l’emergente figura del bambino che se ne stava seduto per terra con le gambe rannicchiate sul petto e le spalle incollate a quel provvidenziale angolo dove le travi cadute avevano formato una sorta di protezione a capanna. Accostò, trepidante, l’orecchio alla sua bocca per sentire se respirava ancora. Grazie a Dio, un flebile e rado respiro testimoniava l’esistenza della funzione vitale. Non rispondeva alle domande, non muoveva un solo muscolo: ma era vivo. Il corpo tumefatto, gli arti escoriati: ma era vivo. Tanto bastava! Gli occhi lucidi e sbarrati risaltavano con maggiore incisività su quel corpicino interamente ricoperto da uno spesso strato di polvere. Lo colse tra le braccia e lo portò via da quel cantuccio che gli aveva miracolosamente salvato la vita. Qualche metro più in là, lo adagiò con cautela sopra un letto di macerie e cominciò ad accarezzarlo e a parlargli dolcemente. Poi, così come aveva fatto con la statuina di terracotta, prese a ripulirlo sommariamente con le mani. Il bambino continuava a restare immobile, con gli occhi impietriti dal terrore. A questo punto, il vecchio, sopraffatto dall’incredibile sforzo fisico che aveva sostenuto, sprofondò in un sonno profondo.

    Quando riaprì gli occhi, si volse con apprensione verso il nipotino; ma, subito dopo, si rassicurò. Con grande sollievo vide che grosse lacrime rigavano il viso impolverato del bambino che stava finalmente reagendo al forte trauma. Scendevano per le gote come due gocce di acqua piovana che solcano i vetri sporchi di una finestra. Gli parlò sommessamente fino a quando Ginuzzu girò finalmente il capo verso di lui. Lo fissò con aria smarrita e cominciò a singhiozzare convulsamente. L’abbraccio che ne seguì fu allo stesso tempo tenero e violento. Con la vista offuscata dalle lacrime, a Lìu sembrò di intravedere, in fondo alla stanza, le figure appena accennate della moglie, della figlia e del genero che fissando quella scena tra nonno e nipotino sorridevano mestamente.

                                                         Lino Soraci