La controversia liparitana

Un conflitto Stato-Chiesa tra storia e letteratura

Il problema della conflittualità fra lo Stato e la Chiesa (che in quest’ultimo periodo si è vivacemente riproposto in talune vicende della politica interna italiana), affonda le radici nella notte dei tempi percorrendo trasversalmente le più diverse civiltà. Lo Sciamano nelle primitive organizzazioni sociali, la casta sacerdotale nella civiltà egizia, gli àuguri greci o il Pontefice Massimo nell’antica Roma hanno da sempre rappresentato, nel segreto del naos o del sancta sanctorum, un contrapposto ed alternativo centro di potere. Nel corso del medioevo, questa contrapposizione si configura nella sua accezione moderna: una lotta titanica fra la Chiesa che vagheggia di imbrigliare il potere temporale e l’imperium laico che rivendica, a sua volta, libertà d’azione. Per dirimere i conflitti causati da questo scontro, se gli imperatori si affidavano al potere persuasivo dei loro poderosi eserciti, il Papato preferiva ricorrere all’uso di un’arma meno dispendiosa, ma al contempo ben più potente e temibile: la scomunica. Arma della quale si avvalse anche in occasione della c.d. Controversia Liparitana, un durissimo braccio di ferro contro le prerogative regie che dal 1711 al 1728 travagliò una Sicilia dominata, in rapida successione, dagli Spagnoli, da casa Savoia, ancora dagli Spagnoli ed, infine, dagli Austriaci. La disputa ebbe inizio, per futili motivi, il 22 gennaio 1711. La dominazione in atto è quella spagnola, il cui re, Filippo V, è rappresentato nell’isola dal vicerè don Carlo Filippo Antonio Spinola-Colonna, marchese de los Balbasès. La mensa vescovile di Lipari aveva affidato ad un bottegaio del luogo un ròtolo (800 gr. circa) di ceci da mettere in vendita. Due agenti dell’annona (Acatapàni), pur essendo a conoscenza della provenienza della merce che la rendeva esente da ogni gabella, esigono ugualmente la riscossione di tre bajocchi per il “diritto di mostra”. Il vescovo di Lipari, monta su tutte le furie e li scomunica. Le cose, purtroppo, non si fermano qui; anzi, cominciano a complicarsi sempre di più perché, disgraziatamente, si impaniano nelle fitte reti di una materia particolarmente delicata e dibattuta: la Legatia apostolica. Questo privilegio - concesso nel 1097 dal papa Urbano II a Ruggero il Normanno per ricompensarlo della cacciata degli arabi dalla Sicilia - consisteva nella potestà riconosciuta ai re di Sicilia di considerarsi “legati nati” del Pontefice di Roma: potevano, cioè, a loro piacimento, nominare e trasferire vescovi e prelati nelle terre sottoposte al loro dominio. Ruggero il Normanno, forte di questo diritto, istituì il “Tribunale della Monarchia” cui attribuì l’esclusiva competenza a deliberare, senza appello o ingerenze della Curia, su tutte le questioni ecclesiastiche siciliane, con esclusione delle materie che riguardavano dogma o che ferivano la salute dell’anima. Giovanbattista Tesoreri e Giacomo Cristò (questi i nomi dei due  Acatapàni scomunicati) adirono, dunque, quell’antico Tribunale che, esaminata la questione, rese loro ragione annullando il drastico provvedimento della Curia eoliana. La Chiesa, di rimando, sottopose quel deliberato all’esame della “Congregazione dell’Immunità” che, con decreto approvato dal Papa, lo dichiarò a sua volta privo di efficacia “ex defectu jurisdictionis”. Il picco della crisi si ebbe durante il regno di Vittorio Amedeo II, duca di Savoia (1713-1718) la cui risoluta azione anticlericale portò alla scomunica dello stesso re e all’interdetto religioso esteso su tutta l’isola che, per poco, non degenerò in uno scisma religioso. Intorno a questi eventi storici ruota la “Recitazione della controversia liparitana”, opera teatrale di Leonardo Sciascia che ancora oggi non ha trovato un sensibile regista e un valoroso produttore per essere adeguatamente rappresentata e circuitata. Fin dalle prime battute, ambientate nella sala delle udienze del Palazzo Reale di Messina, la scrittura risulta perfetta, godibilissima, intrigante e particolarmente ironica nei passaggi in cui il vicerè spagnolo risponde altezzosamente picche alla richiesta del canonico Todaro, rappresentante del vescovo di Lipari, di dichiarare l’incompetenza del Tribunale della Monarchia a cassare provvedimenti di scomunica emessi dall’autorità ecclesiastica. E con quale arguzia e preziosità di stile lo scrittore di Racalmuto coglie, poi, nell’intermezzo dell’opera (il tempo diegetico è, ora, quello della dominazione di Casa Savoia), la curiale astuzia del vescovo di Catania che dell’ipocrita compunzione e del finto rispetto del sergente maggiore don Giuseppe La Rosa, piombatogli in casa per arrestarlo, ne fa un sol boccone! Il punto in cui si coglie appieno la forza devastante della scomunica sulle coscienze di chi ne ha subito la condanna, è palesemente individuabile nella parte finale della Recitazione: quando, i fautori della linea dura contro il Papato si ritrovano, nell’estate del 1718, di nuovo sotto il dominio dei rientranti Spagnoli del marchese de Lede che annuncia la volontà del trono di Spagna di porre fine alla Controversia. Cominciano, allora, le prime vendette che vedono l’assassinio di Matteo Lo Vecchio, lo sbirro scomunicato che con qualche soddisfazione aveva eseguito, su ordine del Tribunale della Monarchia, gli arresti o la deportazione fuori dalla Sicilia dei preti recalcitranti. Ciò nonostante, il moribondo gendarme castigapreti confessa trepidamente ad alcuni membri del Tribunale (tra i quali il messinese Giacomo Longo), la sua paura di morire con la scomunica addosso. Magistrale l’explicit dell’opera, allorquando il Longo, sul cadavere del Lo Vecchio, esclama sconsolatamente: “Abbiamo perduto. Non col Papa. Non col marchese di Lede. (Indicando il morto) Con lui”.

                                                                                                                                           Lino Soraci